Capitolo III - Parigi


La mia situazione era seria, occorreva decidere in fretta. Rimanere era per me ormai rischioso ovunque, soprattutto se veramente quella valigia era finita in mano agli ex ribelli. Non potevo partire così all'improvviso senza avere provveduto a sistemare le mie cose personali. Soldi non ne avevo abbastanza per garantirmi una certa tranquillità perché avevo acquistato l'appartamento, la macchina e in parte li avevo messi a disposizione per aiutare qualche amico, specialmente Antonio. Erano soldi che mi avrebbe restituito, certo, ma che al momento non potevo disporre.
Cercai di vendere l'auto per una cifra irrisoria, ma tanti altri cercavano di fare la stessa cosa e al prezzo di un televisore si potevano comprare tre mercedes nuove, tutti volevano vendere e nessuno comperava. Decisi dunque di abbandonare l'auto nei pressi dell'aeroporto. Ad Hassi Messoud vi era una succursale della mia banca, vi ritirai i miei pochi soldi e presi l'aereo per Parigi.

Scendendo dall'aereo mi sembrava di essere arrivato in Alaska, malgrado fossimo in agosto il contrasto di clima era veramente grande. Fortunatamente avevo un golfino con me. Mi diressi verso il centro dove presi in affitto una stanzetta di un piccolo hotel a Palais Royal. Ormai non avevo altra scelta che ricominciare tutto da zero. Rimpiangevo anche di aver scelto Parigi come meta dove la vita era carissima, gli alloggi in affitto introvabili e il clima pessimo. Avrei fatto meglio a dirigermi verso la costa, ma oramai non potevo permettermi di spendere altri soldi per cercarmi un posto migliore. Avrei avuto bisogno di vestiti più pesanti, di una stanzetta in cui potermi fare da mangiare, ma prima di tutto dovevo trovare un posto di lavoro.
Ricominciai a leggere gli annunci economici sui quotidiani cercando dapprima un posto come autista, poi, vedendo le difficoltà riscontrate, cercai un posto qualsiasi. Le stesse difficoltà incontrate ad Algeri si ripresentavano lì. In primo luogo perché ero straniero, secondariamente perché venivo dall'Algeria, e i "piedi neri” in Francia non erano molto apprezzati. E ancora perché ero stato nella Legione, perché non avevo la residenza in Francia e perché i miei documenti algerini non erano validi. Perciò se avessi trovavo un datore di lavoro disposto ad assumermi, esigeva un certificato di residenza, ma per averlo occorreva dimostrare di avere un lavoro. Bella situazione la mia, per trovare un lavoro mi sarebbe stato più facile se fossi stato cittadino francese o anche italiano, ma ora non ero più ne l'uno ne l'altro. In Italia ero inoltre ricercato con mandato di cattura per non essermi presentato alla chiamata al servizio di leva.
Anche in Francia non ero gradito e mi rigettavano come una vecchia ciabatta, dopo avermi usato non servivo più. E dire che avrei dovuto avere gli stessi diritti di qualunque cittadino francese.
Pensare che in Algeria ce l'avevo fatta ad inserirmi, mi sentivo soddisfatto degli sforzi fatti nel Deserto perché ero riuscito a diventare una persona come tante, con una casa, una sicurezza finanziaria che andava via via consolidandosi. E' bello sentirsi come gli altri, ci si sente tranquilli quando si sa di avere un conticino in banca. Invece rieccomi nuovamente in preda a quella disagevole sensazione di "messa al bando" e di inferiorità. Rieccomi ancora attanagliato dall'angoscia per il presente e per quello che potrà essere il futuro, con quel solito senso di solitudine e di indescrivibile freddo interno.
Ero ormai ridotto al verde e già da una diecina di giorni facevo la spola tra un datore di lavoro disposto ad assumermi a patto che gli presentassi un certificato di residenza e la Prefettura, che prima di farmelo esigeva quello del lavoro. Non so per quanto tempo ancora avrebbero continuato a rimandarmi dall'uno all'altro come una palla da ping-pong, se il datore di lavoro non si fosse deciso di correre qualche rischio ponendosi contro legge e procurarmi un certificato di lavoro col quale, dopo ore di fila negli uffici stranieri della prefettura, mi inscrissero all'anagrafe.

La società che mi assunse era un'impresa di lavori pubblici; mi affidarono un grosso camion e iniziai subito a lavorare per settantamila franchi mensili e alloggiato in una delle tante baracche in legno riservate ai trenta autisti e manovali della ditta.
Le baracche, tutte attaccate l'una all'altra, erano situate in un grande cortile dove la sera parcheggiavamo anche i camion.
Avevo sì un lavoro ma ero completamente in bolletta e non sapevo come fare per arrivare fino alla prima quindicina del mese. I miei colleghi, tutti francesi non apprezzavano molto il mio accento straniero, soprattutto da quando erano venuti a sapere che ero al verde, mi giravano alla larga al solo vedermi per timore che gli chiedessi una sigaretta. Ottenni, dopo alcune richieste, un piccolo anticipo sulla paga dal principale, solo quel tantino che bastava per comperami un fornello elettrico e qualcosa per farmi da mangiare.
Fine novembre "62. L'inverno si preannunciava molto rigido, la brina ricopriva i campi attorno e fino a mezzogiorno era un freddo molto intenso. Avevo già riscosso qualche quindicina ma non mi ero rimesso in sesto, i pochi soldi che avevo preso erano bastati appena per il mangiare e le sigarette. Non avevo ancora potuto vestirmi adeguatamente nemmeno per il lavoro. La domenica lavavo i miei panni nell'acqua gelida e li stendevo nella piccola cameretta senza riscaldamento di due metri per tre, nella quale il lettino da campo rappresentava tutto il mobilio.
Per tirare avanti andavo quando potevo, in un campo vicino a raccogliere erbe ricoperte di gelo che credo fossero spinaci, e la sera impiegavo delle ore per farle bollire sul fornellino elettrico, erbe che spesso costituivano tutta la mia cena.
Ai primi di dicembre mi trovai un'altro posto d'autista con la speranza che fosse migliore o che almeno l'ambiente fosse diverso. Dovevo fare la linea tra Parigi e Mont Ginevra con un piccolo furgone. Il principale era un ebreo possedeva una fabbrica di scarpe a Milano e una a Parigi, dove aveva anche un deposito di stoccaggio per la merce. Le scarpe provenienti da Milano le vendeva in parte nei suoi negozi sparsi qua e là e in parte la spediva all'estero o in altre zone della Francia.
Il salario era più o meno equivalente al precedente ma il lavoro mi piaceva di più. Come alloggio il principale mi offrì una stanza a Boulogne in una vecchia casa abbandonata in attesa di essere demolita. Nella nuova stanza in cui vivevo vi era già installato Jean Claude, un negretto di sedici anni della Guadalupe, anch'egli al servizio di Tuìll, il principale, come magazziniere per diciassettemila franchi mensili.
La stanza come del resto tutta la casa, era completamente spoglia, con le finestre sgangherate e senza vetri. Solo un rubinetto sbucava da una parete a circa un metro dal suolo.
Dormivamo su due brandine da campo barcollanti che ci aveva prestato Tuìll. Io avevo solo una vecchia coperta per ripararmi dal freddo della notte.
Andavo a Mont Ginevra una volta la settimana col furgone citroen partendo al mattino verso le quattro per essere a Briancòn verso le undici di sera dove passavo la notte a riposare sul furgone per recarmi poi al mattino a Mont Ginevra. Lì aspettavo alla dogana che arrivasse il camion da Milano con le scarpe per fare il trasloco della merce. Al ritorno mi fermavo a Grenoble per fare le diverse spedizioni in Francia e all'estero, per poi fare ritorno col rimanente a Parigi.
Le statistiche dicevano che da quarant'anni non faceva così freddo in Francia. Abituato com'ero al caldo tremendo del Sahara, dovevo ora sopportare quel freddo siberiano. Partivo spesso verso la frontiera con le strade ricoperte di neve e da Grenoble cominciavo a risalire le Alpi per una stradicciola tutta in salita e ricoperta da uno spesso strato di ghiaccio e fiancheggiata da molti burroni. Ero anche senza catene, visto che per Tuìll era una spesa inutile.
Il lavoro mi piaceva ma la paga era molto bassa, e il principale andava via via dimostrandosi sempre più tirchio ed esigente. Non solo voleva che con la mia piccola paga mi pagassi tutte le spese di viaggio, ma pretendeva che rispondessi io a tutte le eventuali rotture e ai guasti al furgone. Inoltre mi controllava il consumo del combustibile col contagocce. Se protestavo mi diceva che dovevo essergli riconoscente dell'alloggio che mi aveva dato grazie al quale risparmiavo un mucchio di soldi. Naturalmente non mi pagava le numerose ore notturne che facevo durante i viaggi e nemmeno quelle lavorate al deposito merci dove mi fermavo fino alle ventitré quando non viaggiavo. Anzi, a fine mese cercava sempre qualche pretesto per trattenere dalla già misera paga qualche soldo, lamentandosi del modo in cui la mano d’opera era sempre troppo esigente, e maledicendo il Governo che costringeva i poveri proprietari a dare tanti soldi a gente che non lavorava abbastanza pretendendo in cambio sproporzionati salari. Per questo non riusciva mai ad avere un lavoratore fisso. Anche le segretarie ne cambiava una al mese perché volevano fare solo otto ore al giorno rifiutandosi di farne altrettante per il bene della ditta. Il solo impiegato contabile che da anni lavorava con lui era anch'esso ebreo. Lavorava molte ore e con molta assiduità, non so se avesse qualche interesse particolare nella ditta, ma so solo che era sempre in accordo con Tuìll per sbagliare i conti sui fogli paga.
Tuìll era solo da poco in Francia, proveniva dalla Libia dov'era abituato a pagare la manodopera con molte sgridate e pochi soldi, e non voleva rendersi conto che in Europa era diverso. Costretto a dare il minimo salario prefissato dai sindacati, cercava di rifarsi facendoli lavorare il doppio.
Non voleva capire che pagandoli poco rendevano poco, anche per il fatto che nessuno rimaneva con lui per più di un mese e ai nuovi arrivati occorreva un certo periodo per impratichirsi nel lavoro e nessuno era disposto a lavorare il doppio delle ore pagate per avere in più, sempre da ridire sul totale della busta paga. Tutto questo avevo cercato di dirglielo un giorno ma inutilmente. Ero stanco anch'io di lavorare per lui in quelle condizioni e contavo di piantarlo per un'altro lavoro, aspettavo solo di passare quel terribile inverno.
Non avevo certo fatto un bell'affare lasciare la ditta di lavori pubblici dov'ero prima, mi ero lasciato lusingare dal lavoro più attraente e dal desiderio di abbandonare quella triste baracca gelida, quei sornioni di colleghi che mi evitavano. Ma dalla padella ero finito sulle brace. D'altronde le imprese in cui era più facile trovare lavoro erano proprio quelle meno buone perché lì, a causa del malcontento c’era più riciclo di personale.

Eravamo vicini a Natale e la temperatura era da parecchio tempo sotto zero. Con Claude avevo cercato di tappare le finestre della nostra stanza usando dei vecchi giornali, ma senza ottenere risultati. Quando rientravamo assieme la sera, malgrado l'ora tarda ci facevamo un po’ di minestra su un piccolo fornello ad alcool, o della pasta condita solo con un po’ di estratto di pomodoro. Quando il tempo, la voglia e i soldi ce lo permettevano, quel po’ che si mangiava era a carico mio perché Claude col suo stipendio non poteva certo viverci. Mi sono sempre chiesto come se la sarebbe cavata da solo. Mentre preparavo qualcosa di caldo per noi due al buio, lui si coricava vicino al fornello e mi parlava con nostalgia della sua Guadalupe dove il clima era sempre dolce, le ragazze sempre desiderose di fare all'amore e la vita semplice si svolgeva lieta con o senza denaro tramite i frutti che la terra produceva anche senza lavoro, tramite la pesca e la caccia. Ma i "bianchi " gli avevano inculcato la mania dell'acquisto dell'auto, del frigo, o di altri prodotti del consumismo moderno e per ottenerli, tentavano l'avventura dell'emigrazione attratti dal mito dello sfarzo e dei facili guadagni di Parigi. Mentre parlava, il suo viso nero appena rischiarato dalla tenue luce del fuocherello, si stendeva in un sorriso mentre le nuvolette del suo fiato si perdevano nel buio.
Ma era solo un miraggio ad attrarli in quest'Europa tiranna e razzista. Parigi poi, aveva un fascino particolare per attrarre le masse negre che, più numerose delle altre venivano segregate ed escluse dalla società che li usava per i lavori più umili e meno ricompensati.
Non riuscivo a capire per quanto ci pensassi, come potevano quei giovani lasciare le loro terre per venire lì ad ammassarsi in trenta o quaranta nelle cantine e nelle cave, per dormire ammucchiati a terra, mentre i proprietari li spolpavano senza pietà con affitti esosi. Come dovevano tornare delusi ai loro paesi dopo una simile esperienza!.

Avevo già scritto ad Antonio, rimasto ad Algeri, facendogli capire in quale situazione mi trovavo. Siccome pareva non capire, gli spiegai con l'ultima lettera che veramente mi trovavo nei guai e lo pregai di inviarmi con urgenza almeno una parte dei soldi che gli avevo prestato, almeno per passare un decente Natale. Con quella lettera ero certo che appena l'avrebbe ricevuta si sarebbe precipitato a spedirmi un vaglia.
Non avevo mai patito tanto freddo in vita mia, dal rubinetto che spuntava dalla parete del muro dove colava qualche goccia, si era formata una piramide di ghiaccio che dal rubinetto arrivava fino a terra. Rientrando io e Claude, cercavamo di raccogliere qualche vecchio giornale o quando eravamo fortunati qualche pezzetto di legna da ardere sul pavimento stesso della stanza prima di coricarci. Ma il fumo ammassato ci costringeva ad aprire le finestre.
Prima di Natale arrivò la risposta di Antonio, che però non conteneva il vaglia.
Si limitava a dirmi che anche lui desiderava raggiungermi a Parigi con la moglie e che solo dopo avrebbe affrontato la questione dei soldi. Nel frattempo mi chiese di cercargli un alloggio con urgenza perché gli arabi avevano già cercato di fargli la pelle e desiderava partire al più presto.
Io aspettavo con tanta ansia che mi mandasse del denaro, almeno quel tanto per passare le feste senza la preoccupazione del mangiare, ma la delusione fu tale che gli risposi arrabbiato dicendogli che era ora che imparasse a cavarsela da solo, che non volevo più aver a che fare con lui, che gli regalavo quanto mi doveva, la macchina, i soldi, l'arredamento dell'appartamento, a patto che non si fosse mai più fatto vedere. E fu così, non lo vidi mai più e con lui persi anche la segreta speranza di rivedere Anna Maria. Mi coricai quella sera più triste del solito pensando per lunghe ore a lei, indifferente ai soliti racconti di Claude che come sempre continuava con animosità a parlare della sua terra natale.

Il giorno di Natale "62 verso le dieci, io e Claude eravamo ancora accovacciati sotto le coperte, non avevamo il coraggio di alzarci a causa del freddo incombente. Dal letto guardavo attraverso gli strappi della carta che ricopriva le finestre la neve cadere fitta tra le raffiche di vento. Qualche spruzzata entrava di tanto in tanto nella stanza.
Claude accucciato sul vecchio materasso recuperato nelle immondizie, dormicchiava ancora. “Claude, sei sveglio?" "Sì" rispose, “Che facciamo, usciamo?". Saltammo giù dai letti e ci vestimmo tremando. Se almeno avessimo una stufa e potessimo fare un po’ di caldo pensavo, potremmo stare dentro senza dover battere continuamente i piedi per riscaldarli.
Uscimmo poco dopo, ma senza soldi senza sapere dove andare. Il vento penetrava nelle ossa facendoci tremare. Arrivati ad un incrocio con una grande strada restammo immobili senza sapere cosa fare mentre osservavamo in silenzio la gente camminare frettolosa, avvolta nei panni caldi e pesanti, con le mani ingombrate da pacchi o fiori.
In pochi facevano caso a noi, ma quei pochi ci guardavano con ripugnanza. Ci guardavano come si guarda una mosca caduta nel bicchiere di latte che si sta per bere. Certo non dovevamo avere un bell'aspetto, io vestito da lavoro con un giacchettino estivo, sporco e mal ridotto, pallido con le scarpe in agonia e la barba lunga. Jean Claude con la sua vecchia giacca chiara a quadrettoni più spiegazzata della mia e troppo grande per lui, i pantaloni malconci, non si presentava meglio. Ce ne stammo lì fermi con le mani in tasca e tremanti sotto il peso del freddo per qualche momento senza sapere dove dirigerci. Il viso del mio amico era color cenere, mi guardò dicendo: “Che facciamo?" "Bah” risposi, “vuoi che rientriamo? Almeno saremo protetti dal vento e dalla neve, poi mi fa rabbia il modo in cui ci guarda la gente, sembra che nei giorni di festa debba mostrarsi solo la gente che è ben vestita". Rientrando, trovammo Tuill ad aspettarci, chissà, pensai, in un giorno come questo forse ci invita a pranzo a casa sua. Ma ci aspettava solo per dirci che nel pomeriggio dovevamo lavargli la macchina.
Alla fine di febbraio diedi le mie dimissioni dalla ditta di Tuìll a causa del salario insufficiente, e per non dover discutere ad ogni fine mese, per farmi dare i soldi che per "errore" mancavano sempre dalla busta paga. Nel sentire che me ne volevo andare, Tuìll andò su tutte le furie. "Ma come?” imprecò, “anche tu mi tradisci? Anche tu fai come i francesi, siete tutti uguali! Dopo tutto quello che ho fatto per te! Dopo che ti ho alloggiato e trattato come uno della famiglia! Non sarà una questione di paga spero” e aggiunse con aria grave, “ Se è per quello, cinque o diecimila franchi te li posso aumentare “Gli risposi che oltre alla paga c’erano tante cose che mi disgustavano e che insomma avevo deciso di andarmene. Non riuscendo a convincermi ne con le buone ne con le cattive, mi pregò di non andarmene subito e di fare un'altro viaggio a Mont Ginevra per dargli il tempo di cercarsi un'altro autista.
Accettai di fare il viaggio ma al mio ritorno l'altro autista non c’era. Accettai pure dietro la sua insistenza di farne un'altro, poi un'altro ancora, ma Tuìll non si decideva a trovarmi un sostituto. Alla fine, stanco di farmi prendere per i fondelli da quell'ebreo, gli dissi deciso di prepararmi il conto perché non intendevo più attendere. Assistei ad nuova crisi di nervi di Tuìll che minacciò di farmi pagare l'affitto dei mesi passati nella stanzetta, e di andare a "parlare" all'ufficio degli emigranti stranieri. Al ché gli risposi che a mia volta avrei denunciato quella sua fabbrica di scarpe nascosta in centro dove facevano calzature di cartone sotto la pomposa etichetta di "Made in Italy". Per un attimo sembrò volesse sgozzarmi, poi finalmente si decise a dare l'ordine al contabile ebreo di prepararmi il conto. Quando me lo consegnò mi accorsi che mancava una parte della somma. Chiesi spiegazioni a Tuìll ma quello mi disse con disprezzo di togliermi dai piedi.

Mi recai alla Camera del Lavoro per farmi controllare il conto e quelli mi dissero che in effetti mancavano ventiquattromila franchi. Riferii anche delle numerose ore fatte di straordinario e mai pagate ma mi risposero che senza prove non potevano farci nulla. Mi consegnarono comunque un bigliettino da rimettere a Tuìll con l'ingiunzione di pagarmi il saldo, cosa che fece insieme a parolacce, insulti, tuoni e fulmini, ordinando al contabile di farmi un assegno che il giorno stesso andai ad incassare.
L'impiegato della banca, del Credit Lyonnais, quando fu il mio turno, mi chiese come volevo scambiare i soldi. " Bèh” risposi un po’ meravigliato, “mi dia due grossi e il resto piccoli". Volevo dire, due da diecimila e il resto da mille. Il cassiere mi guardò un po’ perplesso come se non avesse capito bene, poi tirò fuori dalla cassaforte un bel mucchio di bigliettoni, tra cui due da centomila franchi. Poi prese delle mazzette da diecimila che passava abilmente tra l'indice e il pollice e iniziò a contare. Uno, due, tre, quattro e metteva i pacchetti contati sotto al mio naso. Poi ricominciava: uno, due, tre, quattro...Compresi subito che stava facendo un errore, ma di che genere? Certamente aveva letto male il mio assegno, oppure avevo capito male quando aveva chiamato il numero di turno? Mentre contava mi guardai attorno ma pareva che nessuno dovesse venire a ritirare i soldi che il cassiere stava contando. Ma allora tutto quel denaro sarebbe stato per me?... Otto, nove, dieci e continuava ad ammucchiare i soldi davanti al mio naso. Le costole si erano trasformate in un'incudine dove il cuore batteva a martello, cosa fare? Avevo solo pochi secondi per decidere. Allungando le mani per prenderli temevo di vedere il proprietario saltare fuori per dirmi del ladro. Non è che tra un po’ ritiri tutto dicendo tra una gran risata che è solo uno scherzo? Pensavo tra me. Sette, otto, nove e dieci. “Non ha una borsa? Vuole un pezzo di giornale?" Era giunto il momento di decidere, cosa fare? Era un mucchio di soldi che spingeva verso di me e non dovevo che allungare le mani per prenderli. Sarebbero finite le difficoltà, avrei potuto fare tante cose con due milioni quattro centomila franchi, ma non avevo mai fatto una cosa del genere. Malgrado tante esperienze ero rimasto quel provinciale schietto e genuino di sempre, tuttavia ero tentato. Non so che espressione avesse il mio viso, forse ero sudato, le mani in ogni caso erano sudaticce. "Scusi” gli dissi”, è sicuro di non essersi sbagliato?" “Sbagliato? Perché sbagliato? Che genere di errore?" "Guardi meglio il mio assegno" continuai. Riprese l'assegno che aveva già infilato nel chiodo con gli altri, lo guardò bene, impallidì, lo rinfilò nel chiodo e prettamente arraffò tutto il malloppo per rimetterlo subito in cassaforte dietro il banco. Prese allora due miserabili biglietti da diecimila, quattro da mille e me li porse davanti senza una parola, senza un grazie. Era sconvolto, e lo ero anch’io.
Camminando lungo il Boulevads Des Italiens vedevo doppio. Mi accorsi di avere le lacrime agl'occhi. Due milioni quattrocentomila franchi al posto di ventiquattromila. Quello aveva letto la somma in cifre senza far caso alla virgola, i nuovi franchi erano usciti da poco e la gente non vi aveva ancora fatta l'abitudine.

A dare un po’ di respiro alla mia disastrosa situazione economica fu la decisione del Governo francese di risarcire una piccola parte dei beni perduti in Algeria dai "piedi neri". Non mi fu possibile dimostrare la perdita dell'appartamento con le tante altre cose, dato che le documentazioni private e comunali erano andate distrutte, ma mi venne concessa una piccola somma di denaro che mi permise di installarmi in una stanzetta di una bettola chiamata pomposamente hotel, dove i topi erano più numerosi degli inquilini.

Da tre anni mi trovavo ormai a Parigi. Avevo trovato nel frattempo lavoro in uno dei più grandi magazzini della capitale, il Bazar de l’Hotel de Ville, prima come uomo di fatica poi come fattorino per le consegne a domicilio con uno dei numerosi camion del centro commerciale. La paga era di novantamila franchi al mese. Vivacchiavo spendendone quaranta per la stanzetta all'hotel, senza permettermi due pasti al giorno perché ognuno costava minimo mille franchi, perciò dovevo pranzare spesso con un panino.
Dopo la perdita dei miei beni ad Algeri mi ci ero messo con tutta la buona volontà possibile per ricominciare da zero, ma per quanto facessi per riuscirvi non vedevo nessuna prospettiva di uscire dall'indigenza.
Anche Ferruccio era a Parigi e lavorava assieme a me. Lui era venuto via dall'Algeria con qualche risparmio e si era installato in un appartamentino con la moglie e i figli. Vivevano in ristrettezze, ma perlomeno formavano una famiglia, avevano una casa, un piatto di minestra calda e due simpatici maschietti.
Eravamo gli unici stranieri tra un centinaio di fattorini addetti alle consegne del grande magazzino. La vita che ero costretto a condurre era priva di qualsiasi soddisfazione, per non spendere non uscivo quasi mai, se non per andare qualche volta a casa di Ferruccio dov'ero sempre ben accolto. Tra i colleghi francesi non avevo un solo amico. Ci si salutava al mattino prima di partire ciascuno col proprio camion pieno di merce da consegnare, ma tutto finiva lì. Mi era difficile dunque inserirmi, non solo nella società ma anche nella cerchia delle amicizie, con i colleghi di lavoro, tra i quali sentivo un attrito razziale che ormai conoscevo bene a Parigi.
E' difficile spiegare, se non si è provato, quanto sia penoso convivere in ambienti dove si sente di essere mal tollerati. Come sia difficile sopportare continue allusioni alla propria inferiorità, alla propria razza, alla propria nazionalità. Come si possa soffrire senza che nessuno usi violenza, umiliati senza che nessuno umili direttamente. Forse coloro che hanno avuto la sfortuna di viverci possono capire, quando hanno a che fare con uno straniero, anche i più umili tra loro si sentono tutti dei piccoli padroni come se ci mantenessero a loro spese. Hanno tutti una sorta di "complesso di superiorità", come se ci facessero l'elemosina o ci salvassero a loro spese. Per questo in cambio hanno il diritto ad umiliarci a loro piacimento trattandoci dall'alto verso il basso e solo chi accetta le continue "punzecchiature" è tollerato. Chi invece conserva un po’ di orgoglio per la propria razza o per il proprio paese d'origine, chi osa ribattere o contraddirli è mal sopportato. Questo era il mio caso, perché al contrario di Ferruccio che col suo carattere più aperto e spigliato sapeva farsi apprezzare, io covavo le ingiustizie come un macigno che mi si piantava lì e non andava giù e rispondevo a tono a chiunque mi stuzzicava senza rendermi conto di quanto, così facendo peggioravo le cose.
Certo sarebbe stato meglio evitare certe discussioni, ma per farlo bisognava essere muti e sordi. Io che non ero ne l'uno ne l'altro, non riuscivo sempre a tacere pur accorgendomi che ciò facendo mi isolavo sempre più rinchiudendomi in uno sterile risentimento verso tutti, anche verso quelli che più di altri mi tolleravano.

Da sei anni ero ormai a Parigi ed avevo sempre vivacchiato stentando ad arrivare ad ogni fine mese, a causa soprattutto dell'esagerato affitto che pagavo per la stanzetta in cui alloggiavo; quando mi giunse la buona notizia che mi era stato assegnato un appartamentino in una casa popolare di Creteil nella periferia di Parigi. Nel palazzo appena finito di costruire fui il primo a penetrarvi e prendere possesso del mio alloggio, composto da una camera con soggiorno bagno e garage. Vi entrai con la mia valigetta e per alcune ore me ne restai accovacciato a terra a contemplarlo. Da tre anni ne avevo fatta la domanda, e finalmente mi era stato assegnato in priorità come profugo d'Algeria.
L'affitto era di trentamila franchi al mese più le spese condominiali, non erano pochi ma speravo di economizzare facendomi da mangiare io stesso. Certo occorreva ammobigliarlo, anche se ero sempre in bolletta, mi serviva un letto, un tavolo con delle sedie, un fornello e dei tegami. Dopo mille conteggi e mille ripensamenti, decisi di correre il rischio e fare un debito, pur sapendo che sarebbe stata dura e che avrei dovuto stringere ancor più la cinghia. Acquistai il tutto al grande magazzino per il quale lavoravo facendo un debito che mi trattenevano sulla busta paga a ventimila franchi al mese, perciò non mi restavano per vivere che settantamila franchi. Dai settanta dovevo detrarne trenta per l'affitto, più cinque di spese condominiali, perciò ne restavano trentacinque per viverci un mese. Anche evitando qualsiasi altra spesa avrei dovuto cavarmela con poco più di mille franchi al giorno, il prezzo di un biglietto del cinema. Quello era il risultato di sei anni di lavoro, che dico, di tredici anni di pericoli e di duro lavoro. Ero al verde più che mai, sempre solo come un eremita e per giunta con dei debiti. La mia esistenza era insicura, dedicata solo alla sopravvivenza e senza prospettive di un avvenire migliore. Il solo modo per uscirne sarebbe stato quello di sposarmi con una ragazza che lavorasse, in due ci si poteva sistemare meglio ed avere uno scopo da raggiungere più attraente, ma uscendo raramente non avevo molte opportunità di fare delle conoscenze. Dopo Anna Maria non avevo più trovato una ragazza che mi piacesse veramente e non intendevo sposarmi solo per un calcolo economico.
Certo in sei anni non ero stato così isolato ed avevo conosciuto malgrado tutto alcune ragazze. Françoise era disegnatrice pubblicitaria, simpatica, intelligente, ma troppo grassa per piacermi veramente. Jioelle studiava ancora, era bruna e carina. Sua madre era proprietaria di un piccolo hotel ristorante nel quale avevo vissuto per un po’ e, caso raro, non le dispiaceva affatto che uno straniero frequentasse sua figlia, anzi, mi rimproverava gentilmente quando non ero regolarmente con lei. Ma con Joelle non andavo molto d'accordo nei gusti e nelle opinioni.
Anche Nicole era bella. Era stata la segretaria di Tuìll solo per una diecina di giorni, e in quei pochi giorni nacque tra noi una certa simpatia. Mi invitava spesso in una stanzetta d'hotel che regolava lei, per stare un po’ assieme. In principio tutto andava bene, poi, ogni nostro incontro finiva con un mare di lacrime perché non accettavo la convivenza; ma il fatto che fosse già accompagnata con un'altro, che avesse un figlio, e che fosse alla continua ricerca di un uomo diverso mi faceva indugiare. Pianse fino al giorno che ci lasciammo.
Con Maria invece, la servetta portoghese che conobbi facendo il fattorino, avrei vissuto volentieri. Mi diceva un po’ in portoghese e un po’ in francese che voleva liberarsi del marito molto più vecchio di lei che trovava il modo di picchiarla spesso malgrado fosse per metà paralizzato. Eravamo d'accordo che sarebbe partita con me, non gli importava dove pur di stare con me, ma una notte sentimmo un'auto fermarsi all'ingresso della villetta dov'era a servizio, e guardando tra le persiane socchiuse riconobbe il marito che all'improvviso, proprio quella notte arrivava dal Portogallo, mi fece raccogliere frettolosamente la mia roba sparsa qua e là per la stanza e mi farmi uscire da una porta di servizio. Ritornai in seguito ma non la ritrovai mai più. I proprietari della villetta erano sempre assenti perciò non ne ebbi più notizie. Mi restò il sospetto che il marito si fosse accorto di qualche cosa e che entrambi fossero ripartiti per il Portogallo.
Tali avventurette tuttavia non duravano mai molto, generalmente mi ritrovavo nella mia solitudine con problemi che mi apparivano giganteschi e insolubili.
Ad aggravare la situazione mi era giunta per raccomandata la nota delle tasse da pagare, un imprevisto che non avevo messo sul conto dei sacrifici. Novantamila franchi che non potendo pagare mi trattenevano dalla busta paga a quindicimila al mese. Era il colpo di grazia e con tutta la buona volontà non potevo più cavarmela.
Sei anni di lavoro più cinque di Legione, più tre nel Sahara per vedermi chiuso in una morsa che stava per stritolarmi. A cosa mi era servito dedicare tutto me stesso al lavoro, ad economizzare ogni soldino, a saltare tante volte i pasti se i sacrifici da fare aumentavano sempre più?

Nella solitudine, in quell'avvilimento che mi accompagnava da quando ero in Francia, aumentava sempre più il rancore accumulato e un indefinito desiderio di rivolta. Cominciavo a rendermi conto che non aveva senso continuare in quel modo, anche se avessi voluto non mi sarebbe stato possibile, ormai ero stretto alle corde, anche volendo cocciutamente continuare quella vita da recluso non ce l'avrei mai fatta a vivere con ventimila franchi al mese. Qualcosa si ribellava in me, basta con quella farsa! Dovevo fare qualcosa per uscirne, dovevo reagire, fare anche qualcosa di poco pulito, meglio rischiare la prigione che morire di fame. Non volevo più farmi succhiare il sangue da imbroglioni e prepotenti. A che serviva potersi vantare di essere onesti per farsi spremere da tutti. Per primi governanti francesi che mi avevano imbrogliato dicendo che avrei avuto i pieni diritti di qualsiasi francese, poi i datori di lavoro che mungevano sulla mia già scarsa paga, infine la stangata delle tasse veniva ad abbattersi come un macigno sul mio difficile cammino. Se si doveva vivere in un mondo di ladri tanto valeva rubare come loro.
Un tavolo, un frigorifero, un letto non pagati, ecco il frutto di tredici anni di sacrifici e di pericoli. Ma c'era un limite di sopportazione a tutto ed ero deciso a reagire, dovevo aggrapparmi ad un appiglio per non sprofondare nella melma in cui ero stato cacciato.
L'ultima volta che ero andato da Ferruccio avevamo parlato della nostra situazione e di un progetto per lavorare assieme per conto nostro. L' idea ci aveva entusiasmati, anche Daniela sua moglie, ne era convinta. Il progetto era di installare a Nizza, durante la stagione estiva, una o due bancarelle per vendere bevande e panini. Ferruccio era uno specialista in materia siccome aveva sempre lavorato nei bar in Italia e conosceva delle specialità poco conosciute in Francia. Con tali prodotti era impossibile fallire. Sarebbe stato veramente bello lavorare insieme autonomamente e abbandonare il grigiore di Parigi. C’erano però due ostacoli da superare: primo agli stranieri non rilasciavano licenze commerciali, secondo eravamo entrambi in bolletta. Al primo problema pensammo di rimediare intestando tutto a Daniela che era francese, mentre al secondo, mi offrì di incaricarmene personalmente dal momento che non avevo famiglia e potevo correre qualche rischio.
Calcolammo che cinquecentomila franchi fosse il minimo indispensabile per il trasferimento, per i documenti e per una iniziale precaria installazione. Ci eravamo lasciati con questi propositi pieni di speranza. La riuscita del progetto dipendeva ormai solo da me, ed ero deciso a fare di tutto per trovare il mezzo milione mancante, anche se non sapevo bene come. Parigi era piena di gente che cercava mezzo milione, gente più esperta di me in quelle cose, in più non mi restava molto tempo per agire perché eravamo in dicembre e tutto doveva essere pronto per i primi di aprile.
Cominciai licenziandomi dalla ditta per cui lavoravo, tra la liquidazione e le ferie racimolai qualche denaro. Ma anche dopo il saldo del debito mi restavano circa duecento cinquantamila franchi e tanto per cominciare avevo già metà della somma convenuta, restava da saldare il debito delle tasse ma ero ben contento che non avessero più l'opportunità di trattenermele dalla busta paga.
La fortuna pareva assistermi perché anche senza commettere delle irregolarità potevo riuscire a trovare la somma onestamente, infatti trovai subito un'altro lavoro. Mi si offrivano solo ottantamila franchi mensili per fare l'autista con un camion in Parigi per un piccolo artigiano di Boulogne, ma mi si offriva inoltre l'occasione di fare molte ore di straordinario e in tre mesi avrei potuto completare la somma mancante. Decisi dunque di rimboccarmi le maniche e lavorare non meno di sedici ore al giorno; naturalmente quella mia instancabile energia nel lavoro soddisfaceva molto il principale che mi colmava di complimenti, anche troppi direi. Quindici giorni dopo, insospettito da tanta bonomia nei miei riguardi, gli chiesi se mi avrebbe pagato le ore straordinarie, al ché mi rispose: "Ma caro mio, quando si fanno certi mestieri non si può guardare a qualche minuto di lavoro in più"." Qualche minuto no” gli risposi, “Più di cento ore in quindici giorni non sono qualche minuto, comunque se non intende pagarmele mi prepari il conto perché me ne vado". Nel conto che mi presentò oltre a non avermi pagato nemmeno un'ora di straordinario, mancavano pure dei soldi per le ore regolari e per vendicarsi si rifiutò anche di rilasciarmi un certificato di lavoro al quale avevo diritto.
Andai a fare esaminare i conti dall'Ispettorato dei trasporti pubblici e l'Ispettore stesso, dopo aver eseguito il controllo telefonò alla ditta: “Allò?, l'impresa X? Senta, ho qui una persona che ha lavorato per lei e dice di non aver ricevuto il conto esatto del licenziamento, cos'è questa storia?"
Ero abbastanza vicino al telefono per sentire nel silenzio dell'ufficio buona parte di ciò che gli veniva risposto. “Ma sa” gli risposero dalla ditta, “era un autista da poco....Ma lei chi è?" "Sono l'ispettore dell'ufficio trasporti e non mi interessa affatto che il suo dipendente fosse o no un bravo autista, a quanto ammonta il salario mensile che gli date?” “Ma gli avevamo promesso settantamila franchi se andava bene ma...."Feci segno all'Ispettore che non era vero. “Ma lo sa” riprese l'Ispettore, “che il salario minimo di base è di ottantamila e non settanta?" Dall'altra parte del filo tacquero. "Inoltre questo signore dice di aver fatto parecchie ore di straordinario, vogliamo provare a fare meglio i conti?”. Stentavano a negare, anche per timore che io avessi dei testimoni. “Ma voi avete esposto la tabella degli orari di lavoro? Continuò l'Ispettore, “sentite prima che venga a fare un controllo nella vostra ditta per vedere un po’ come stanno le cose, rifate il conto a questo ragazzo, siamo intesi?." "Può darsi che ci siamo sbagliati, ce lo mandi pure, gli daremo il mancante” risposero.
Accidenti pensai, esiste dunque una giustizia anche per noi? Per fortuna capita anche di trovare delle persone impeccabili. Ma alla ditta mi diedero solo lo stretto necessario che mancava per legge, delle ore straordinarie non ne vollero sapere.
Intascai i soldi e me ne andai amareggiato, anche per il fatto che era svanita l'unica speranza di arrivare a racimolare in tempo il mezzo milione e non sapevo più come fare.

Durante quei pochi giorni di lavoro avevo conosciuto in un bar vicino alla ditta dove andavo a mangiare un panino a mezzogiorno, un certo Maridjean, un giovane iugoslavo che faceva l'imbianchino, che come me navigava in cattive acque. Viveva in una stanzetta d'hotel con due connazionali i quali non avevano ancora trovato una sistemazione e vivacchiavano tutti sul piccolo stipendio. Pagava anche la stanza d'hotel, i due coinquilini lo assecondavano con qualche provvista alimentare che sottraevano ai grandi magazzini. Uno si chiamava Sasca, era sulla trentina e diceva di essere un disegnatore industriale. L'altro un po’ più anziano si faceva chiamare Dedè, alto, taciturno e forte come un toro. Maridjean era il solo che parlava un po’ il francese, io lo chiamavo Mario tanto per facilitare.
Con Mario parlavamo sempre dei nostri reciproci guai ma non sapevamo come uscirne. Invece di racimolare più soldi, i miei diminuivano ogni giorno, avevo perso ormai ogni speranza di ottenere la somma voluta, ma anche la possibilità di rifarmi una vita dignitosa lavorando, allora decisi di rischiare il tutto per tutto.
Mi recai in un quartiere malfamato di Pigalle e trovai il modo di acquistare per cinquantamila franchi una carta d'identità al nome di un certo Boruso di nazionalità tunisina, più o meno della mia età e statura. La mia foto apparve sul documento al posto di quella di Boruso, poi mi recai in una banca ad aprire un conto corrente col nome del falso documento dando all'impiegato della banca un indirizzo falso, nel quale indirizzo avevo piazzato una cassetta per la posta. Poi ripresi contatto con gli iugoslavi e gli esposi il mio progetto. Mi occorrevano degli assegni di qualche persona benestante e la sua firma, anche su un qualsiasi pezzo di carta. Avrei poi pensato io ad imitarla sugli assegni stessi dai quali avremmo cercato di ricavarne una certa somma da trasferire sul conto di Boruso e che avremmo poi diviso in due parti uguali. Gli iugoslavi apparvero entusiasti, Sasca poi mi assicurò che da tempo un ricco pederasta gli faceva il filo e sarebbe stato un gioco da ragazzi sottrargli qualche assegno. Tutto pareva risolto per il meglio, e per completare l'accordo decisi che ormai visto che eravamo soci, tanto valeva che fossero venuti tutti ad abitare nel mio appartamento; tantopiù che dall'hotel dov'erano, i tre stavano per essere messi alla porta perché da alcuni giorni non pagavano più l'affitto.
E' incredibile come nella disperazione ci si possa aggrappare a qualsiasi speranza. Fatto sta che mi trovai col mio appartamento trasformato in dormitorio. Nella camera da letto dormivo io, mentre gli altri tre dormivano in sala sul pavimento stesso. Per completare il tutto decisi di acquistare con cinquantamila franchi d'acconto, un'auto usata che ne valeva trecento, siccome lo spostarmi sempre a piedi rallentava considerevolmente il realizzarsi dei nostri progetti. Ormai non mi restava che puntare tutto sulla speranza degli assegni per potermi mettere con Ferruccio e ciò sembrava già alla nostra portata, almeno così mi assicuravano gli iugoslavi.
Ma una volta installati nel mio appartamento l'entusiasmo dei tre cominciò a rilassarsi. Il ricco pederasta era in viaggio e bisognava attendere il suo ritorno. Nei primi giorni sembravano pieni di idee, Sasca passava il tempo a elaborare piani su piani fino a tarda notte, facendo progetti su tutti i pezzi di carta che trovava in giro per poi stracciare tutto e coricarsi a notte fonda dopo essersi scolato tutto il vino che c’era in giro e aver fumato tutto il tempo come una ciminiera. Passati i primi giorni, scomparve ogni entusiasmo e, come svuotati di ogni energia, sprofondarono nell'inerzia più totale. Intanto passavano i giorni e io, abituato al lavoro quotidiano, bruciavo dentro e cercavo di smuoverli dicendo loro che così non si poteva andare avanti ancora a lungo, che mi restavano appena i soldi per pagare l'ultimo affitto poi ci avrebbero scacciati, che non c’erano più soldi per il cibo, anche se Sasca e Nenè arrivavano di tanto in tanto con qualche scatolame rubato nei supermercati.
Mi ascoltavano con rassegnata pazienza e un po’ annoiati per i frequenti rimproveri, rispondendomi che presto avrebbero dovuto incontrarsi con un industriale e che dovevo solo pazientare ancora un po’.
Cominciavo a pensare che con quei tre non avrei combinato niente di buono, che tutto mi sarebbe crollato addosso. Ad aggravare le cose Sasca ricevette al fermo posta una lettera dalla Iugoslavia nella quale la sua ragazza gli annunciava che sarebbe venuta a Parigi a trovarlo per sposarsi con lui e ripartire.
Sasca mi pregò di riceverla in casa. Gli spiegai per l'ennesima volta che eravamo nei pasticci e che dovevamo agire immediatamente, ma egli mi supplicò di pazientare altri otto giorni durante i quali la sua ragazza sarebbe rimasta a Parigi, e subito dopo si sarebbe dato da fare con l'industriale o con qualsiasi altro per avere gli assegni. Non mi restò altro da fare che aspettare.
Dusca, la sua ragazza, arrivò puntualmente con pochi soldi, ma con diversi pacchi di cibarie e prese posto anch'essa nel mio appartamento.
In due giorni avevamo fatto fuori tutto quello che cera da mangiare, e finite le provviste eravamo tutti senza viveri e senza un soldo.
Intuendo la nostra situazione la ragazza si preoccupò di sposarsi in fretta per ripartire immediatamente, e siccome quello era anche il nostro desiderio, con la poca benzina che rimaneva nel serbatoio della macchina ci recammo tutti al Consolato Iugoslavo per le formalità matrimoniali. Ci dissero però che per sposarli occorrevano cinquemila franchi che nessuno di noi aveva e non sapevamo come trovare. Erano le undici del mattino e il matrimonio era stato fissato per le sedici dello stesso giorno.
Con gli ultimi cinquecento franchi di Dusca acquistammo un po’ di benzina per la macchina ed iniziammo a fare il giro degli amici e connazionali dei tre iugoslavi per trovare in prestito le poche migliaia di franchi, ma uno solo di loro, ne sborsò mille cinquecento assicurandoli che era tutto quello che possedeva, mentre un'altro, non avendo soldi, regalò a Sasca l'ombrellino da sole della moglie dicendogli di venderlo per completare la somma. Con l'ombrello ci recammo al "monte di pietà” per impegnarlo ma lo rifiutarono. Dusca si sfilò allora un anello dal dito che assieme ad una sua collana consegnò per duemila franchi. Mancava solo un'ora alle sedici quando ci avviammo verso il Consolato con tremilacinquecento franchi. Prima di entrare Sasca scese dalla macchina e, fermatosi ad un incrocio si mise a offrire l'ombrello ai passanti senza però riuscire a venderlo.
Arrivata l'ora del matrimonio ci recammo ugualmente dal Console il quale, fortunatamente accettò di sposarli malgrado la somma mancante.
Al ritorno Dusca si compiacque di aver preso la precauzione di essersi acquistata il biglietto di andata e ritorno, in modo che poté ripartire senza tardare.
Chiuso l'episodio ritornammo ai nostri vecchi guai. Trascorsero altri giorni senza che si sia combinato qualcosa. Dedè scompariva a volte per giorni interi senza che si sapesse dove e cosa facesse. Mario e Sasca, di tanto in tanto tornavano con le tasche piene di alimenti che avevano "prelevato" ai grandi magazzini. Eravamo tutti alla disperazione ma sembrava che io fossi l'unico a preoccuparmene. Quando potevamo mettere un po’ di benzina nella macchina andavamo di sera alle "Halles", il grande mercato ortofrutticolo di Parigi a raccogliere nei rifiuti qualche cassetta di verdura andata a male e in quel modo arrivammo alla fine di febbraio.
Dedè, dopo due giorni di assenza ricomparve nell'appartamento per proporci di attaccare una persona che ogni venerdì andava in banca a ritirare un mucchio di soldi, promettendo anche che avrebbe pensato lui a tutto. Chiedeva soltanto che io lo accompagnassi con la macchina e lo aspettassi nelle vicinanze, ma io, malgrado ormai non avessi più nulla da perdere, non ne volli neanche sentire parlare. Tanto più che quell'energumeno era capacissimo di ammazzare il malcapitato se questi gli resisteva. Sasca invece, da tempo cercava di convincermi ad accompagnarlo in auto in un paesino distante una cinquantina di chilometri da Parigi per fare un furto in una tabaccheria che conosceva, dovevo solo accompagnarlo e aspettarlo a distanza.
A questo punto eravamo arrivati, e mi assicurava che quello era il solo mezzo per recuperare una certa somma con la quale organizzare quella degli assegni. Ero disposto a tentare una truffa, ma mi ripugnava assolutamente partecipare ad un furto.
Una sera però, mentre stavo dormendo, arrivarono in casa verso le ventidue, Sasca, Mario e il biondino che gli aveva prestato i mille cinquecento franchi e con insistenza mi convinsero ad accompagnarli in quel paesino dove volevano fare il colpo nella tabaccheria. Avrebbero fatto tutto loro, io dovevo solo accompagnarli e aspettarli ad una certa distanza.
Ero veramente sul lastrico, di lì a poco mi avrebbero sfrattato, ritirato la macchina.
Non avevo più il becco di un quattrino, non sapevo più dove sbattere la testa. Insomma mi lasciai convincere. Utilizzammo una parte dei cinquemila franchi che possedeva il biondino per un po’ di benzina, poi entrammo in un bar per attendere l'ora propizia per agire. Mentre aspettavamo, Sasca e il biondino facevano già mille progetti su come spendere i soldi ricavati dal colpo e come vendere la refurtiva senza destare sospetti, visto che pensavano di portare via tutto quello che potevano. Io e Mario li ascoltavamo un po’ scettici, poiché ci pareva prematuro fare tanti calcoli sul "dopo furto".
All'una ci avviammo verso il posto in questione. Con la macchina mi appostai in una stradicciola buia alla periferia del paesino. I tre iugoslavi scesero e si allontanarono nel buio dopo avermi raccomandato di tenermi pronto al loro ritorno col motore acceso per partire in tromba.
Mi sentivo molto emozionato come prima di un combattimento alla Legione, e nel silenzio notturno ascoltavo tutti i rumori sospetti preoccupato e ansioso per ciò che stavamo facendo. Mai avrei immaginato di arrivare a quel punto. Se solo riuscissi a cavarmi da questo impiccio pensavo, mai più ritenterò una simile esperienza, ma se li prendono? Se ci prendono tutti?
Solo dopo mezz'ora sentii dei passi affrettarsi sull'asfalto, misi in moto, aprii le portiere della macchina e vidi gli iugoslavi che arrivavano di corsa, salirono al volo mentre io partii a luci spente.
Quando chiesi a Mario cos'era successo, mi rispose ansimando che erano riusciti ad entrare nella tabaccheria, ma appena dentro erano stati assaliti da un grosso cane e non avevano potuto fare altro che darsela a gambe.
Così, dopo aver portato il biondino al suo hotel, rientrammo in casa più squattrinati che mai.
Decisi di sbarazzarmi degli iugoslavi prima di commettere qualche stupidaggine che avrebbe potuto costarmi cara. Ero in ritardo per pagare l'affitto di casa e anche per le rate della macchina, per non parlare poi delle bollette del gas, della luce e delle spese condominiali varie. Non avevo un soldo in tasca e per mangiare restava in cucina solo una mezza cassetta di verdura appassita in ricordo degli iugoslavi.
Non avevo neanche il coraggio di andare da Ferruccio per non dovergli dire che invece di aver messo insieme la somma, ero riuscito solo a ficcarmi nei pasticci. Il contrasto tra le speranze future di lavorare a Nizza con lui e la realtà del presente era tale da procurarmi un senso di dolore allo stomaco.

Più che mai mi sembrava ormai difficile riuscirvi, ma dovevo sperare ancora, fino all'ultimo filo di speranza.
Nel tentativo di riprendere un po’ la situazione in mano mi ero rimesso a lavorare. Contemporaneamente esposi in una vetrina di un commerciante nei "Grand Boulevard", un cartello con su scritto che cercavo una persona con cui dividere il mio alloggio e relative spese d’affitto. Tra le varie risposte ricevute scelsi quella di un certo Duscenne, impiegato di media età che viveva solo in uno studio dal quale aveva ricevuto lo sfratto per la demolizione del suo abitato. Optai per quella scelta anche per il fatto che il Duscenne, lavorando come contabile presso una ditta, poteva avere ottime possibilità di procurarmi gli assegni.
Al primo contatto con lui non ne ricavai una gran buona impressione; viveva in una stanza sporca e maleodorante con un giovane algerino di diciotto anni che mi presentò come suo figlio adottivo. Aveva una quarantina d'anni, di statura media, grassotto e piuttosto mal concio per essere un contabile e lavorare in una grande ditta, eppure i documenti che mi mostrò non lasciavano dubbi riguardo alle sue dichiarazioni. Riuscii a vincere le mie perplessità anche per il fatto che ormai solo uno nella sua posizione poteva procurarmi gli assegni.
Così il Duscenne con l'inseparabile "figliolo” presero posto nel soggiorno dove prima c’erano gli iugoslavi, ma mi accorsi ben presto che i due, invece di recarsi al lavoro se ne stavano in casa tutto il giorno senza preoccupazioni di sorta. Allarmato mi recai al loro vecchio domicilio per chiedere informazioni sul loro conto, cosa che avrei dovuto fare prima, e venni così a sapere che il Duscenne era quasi sempre a spasso e che erano stati sfrattati dalla loro stanza perché da tempo non pagavano più l'affitto. Seppi inoltre che il presunto figlio era in realtà il suo amante, che oltre ad essere sempre al verde, il Duscenne si ubriacava ogni volta che gli capitava qualche soldo.
Più che contabile vivacchiava facendo il prestigiatore-chiromante e praticava la magia nera, e a perditempo si faceva anche assumere di tanto in tanto come contabile in ditte nelle quali non restava mai più di otto giorni.
Guarda un po', mi dissi ritornando, con che merlo sono capitato, ma tutte a me devono succedere? E pensare che speravo di essermi cavato dai guai, ma se di tanto in tanto si fa assumere come contabile, gli lascio una possibilità di procurarmi gli assegni, altrimenti lo rispedisco.
Effettivamente cominciai presto a constatare che Duscenne era un personaggio misterioso. Se da una parte trasudava miseria da tutti i pori, dall’altra aveva conoscenze ovunque, soprattutto tra i grandi della magia, tra personaggi di antiche sette religiose. Anche a Creteil dove abitavo, in pochi giorni aveva fatto la conoscenza di tutte le autorità del luogo, in particolare con l'assistente sociale, con il gerente delle case popolari e con il sindaco stesso. Aveva anche una gelosia morbosa per il suo algerino che non mollava mai, e quando il "figliolo” cercava di scrollarsi di dosso l'amante, questo, trascorreva ore e ore a pedinarlo e a spiarlo per il timore che il giovane lo tradisse con qualche donna. Il ragazzo superstizioso, era completamente soggiogato dalla personalità del mago-contabile, ed era fermamente convinto di non poterlo lasciare per timore delle sue facoltà telepatiche e delle sue capacità nel propinargli il malocchio. Mi chiedeva di interferire per lui presso Duscenne, di dirgli che lo lasciasse andare o per lo meno che lo lasciasse uscire solo senza essere sempre perseguitato e spiato. Capivo quanto poteva essere spiacevole per un giovane tirarsi dietro ovunque un quarantenne che lo sorvegliava in continuazione, ma avevo ben altre gatte da pelare che occuparmi della loro unità famigliare.
Inutilmente cercai di convincerlo che erano tutte balle e lo assicurai che se a fine mese non avesse pagato la sua parte dell'affitto, gli avrei fatto io il malocchio.
Stanco di averli per casa, mi decisi una sera a parlare con Duscenne spiegandogli che se riusciva a portarmi a casa gli assegni avremmo diviso il ricavato. Mi rispose che giustamente da tre giorni lavorava presso una ditta e che gli sarebbe stato facile sottrarre dal blocchetto che era sempre sulla scrivania qualche assegno.
Infatti fu di parola, mi procurò tre assegni con la firma del titolare su una busta a parte. Finalmente era arrivato il momento e se tutto andava bene potevo ancora partire con Ferruccio. Incollai il pezzetto di carta con la firma strappato da una busta sotto una lastra di vetro rischiarata dal basso da una grossa lampadina. Misi sopra al vetro un foglio di carta dal quale traspariva la firma in modo soddisfacente e iniziai ad esercitarmi nel ricalcarla fino ad arrivare a imitarla senza esitazioni in modo quasi perfetto. Poi firmai gli assegni e li compilai a favore di Boruso, al nome cioè della falsa carta d'identità in mio possesso, per una cifra totale di circa un milione trecentomila franchi e li spedii in banca in attesa che venissero trasferiti sul conto di Boruso.
Ormai era fatta, non mi restava che aspettare e andare di quando in quando a controllare se nella cassetta da lettere piazzata all'indirizzo fasullo, era arrivato l'avviso bancario dell'avvenuto trasferimento del soldi.
L'idea degli assegni piacque a Duscenne perché mentre aspettavo il trasferimento dei soldi mi preparò una sorpresa. Da qualche giorno vedevo al loro posto in sala, un'abbondante quantità di bottiglie di liquori e vino con altrettanta abbondanza di cibarie e mi chiedevo quale fonte prodigiosa avesse potuto scovare il mio ospite.
A darmene risposta fu un commerciante del vicinato che venne a chiedermi informazioni circa un mio assegno che il Duscenne gli aveva rifilato in cambio degli alimenti, per un ammontare di cinquantamila franchi e che la banca non gli aveva pagato. Al momento gli dissi solo che Duscenne era assente e che gli avrei chiesto spiegazioni al suo rientro, ma rimasto solo andai a frugare in una mia valigia contenente tra l'altro dei vecchi blocchetti di assegni e mi accorsi che in uno ne mancavano sei.
Ecco dunque spiegata la fonte di tanta abbondanza! Ero ancora lì arrabbiato col blocchetto in mano quando lo sentì salire le scale, gli corsi incontro gridando cos'era la storia dei miei assegni, cosa aveva combinato con i commercianti della zona.
Non rispose, ma facendo un rapido dietro front, se ne scappò di corsa senza che io, a piedi nudi potessi inseguirlo. L'algerino che saliva con lui, rimase fermo a metà scala senza capire cos'era successo. Non ero adirato con lui e lo invitai ad entrare mentre gli spiegavo ciò che era accaduto. Gli dissi di prendere la loro roba e di andarsene per sempre.
Il 4 aprile del "67, al termine della giornata lavorativa, andai per la quarta volta al falso indirizzo che avevo dato alla banca per vedere se nella cassetta a lettere vi fosse l'avviso dell'avvenuto trasferimento dei soldi, non senza prendere qualche precauzione, come del resto ero solito fare. Entrai nel portone del vecchio stabile e passai davanti alle cassette sbirciando al passaggio nella mia fingendo di salire disinvolto le scale. Nella mia questa volta vi era una lettera ma mi diressi come al solito verso le scale senza fermarmi, salii fino al primo piano, poi, vedendo che tutto era tranquillo, ridiscesi deciso ad aprire la cassetta, ma proprio in quel momento un ragazzo giovanissimo entrò dal portone. Ripresi il cammino verso l'uscita senza soffermarmi davanti alle cassette, e proseguendo per una cinquantina di metri la strada, poi, constatando che tutto era tranquillo, ritornai sui miei passi ed entrai nuovamente nell'androne. Aprii la mia cassetta, presi la lettera che vi era dentro e mi avviai di nuovo verso l'uscita quando, il solito ragazzo entrò di nuovo. Sentii alle mie spalle che si fermò e mi seguì verso l'uscita a brevissima distanza. Arrivato fuori dal portone, girai a sinistra e per un attimo intravidi il ragazzo fare un cenno di testa ad un uomo con un impermeabile bianco appostato all'ingresso del portone e sbucato da chissà dove.
Non ci volle molto a capire che mi avevano teso una trappola e che ci ero cascato a piedi pari. Sentivo di essere seguito ma al momento pensai che la cosa migliore da fare era quella di rimanere calmo, di non voltarmi, di non fare vedere che sapevo di essere seguito. Ad una sessantina di metri davanti a me la stradicciola finiva in una T, e camminando vedevo in una vetrina frontale i miei inseguitori. Il ragazzo mi seguiva ad una quindicina di metri da un lato della strada, mentre l'uomo dall'altro, si era tolto l'impermeabile e mi seguiva tenendolo in mano. Senza allungare il passo cercavo di camminare normalmente sperando di arrivare in tempo in un bar vicino dove vi era un'uscita dal retro, vicino alle toilette, forse avevo ancora una speranza. Arrivai così davanti al bar e stavo per entrare ma giusto sulla soglia mi sentii afferrare per le spalle, i due che mi seguivano mi tenevano strettamente mentre un terzo poliziotto sbucato dal nulla mi mise le manette ai polsi.

Il mio primo pensiero fu un addio a Ferruccio e a Nizza. Al Commissariato mi fecero svuotare le tasche, togliere i lacci delle scarpe e la cinghia. Ormai mi trattavano con insolenza e con disprezzo. A me non importava più niente, ero traumatizzato per l'accaduto e non mi spiegavo cos'era successo. Tutto era avvenuto così in fretta, sapevo solo di essere nella merda fino al collo e che mi aspettavano giorni ancor più duri. Uno di loro con uno spintone iniziò dicendo : "Ormai sei cotto! Alè, sputa fuori, dov'è Duscenne? Chi è che si faceva passare per Boruso? Da quanto tempo dura il tuo sporco gioco? Ah, fai il furbo e non vuoi parlare, ora ti sistemiamo noi". Un'altro mentre esaminava i miei documenti esclamò: " Italiano eh? Vedrai cosa ti costa venire a fare il furbo qui". E ricominciavano: “Allora vuoi dire dov'è Duscenne?". Speravo di risvegliarmi dall'incubo, ma tutto era maledettamente reale. Non mi ero mai sentito tanto umiliato e tanto depresso. Avremo fatto più di un chilometro a piedi prima di arrivare al Commissariato percorrendo le vie centrali dell'Hotel de Ville, ammanettato e stretto alle spalle da due di loro. La gente si fermava a guardarci con due occhi grandi così, anche le macchine si fermavano e i ragazzini ci seguivano per meglio imprimersi nella mente com' era fatta la faccia di un delinquente visto in carne ed ossa per timore che tale occasione non si ripresentasse mai più, e com' erano quei poliziotti che difendevano eroicamente i "buoni". Stanchi di farmi domande alle quali non rispondevo, mi tolsero le manette per rinchiudermi in una piccola cella.
Più tardi uno di loro mi gettò attraverso le sbarre una coperta che un'altro si precipitò a riprendere dicendo al primo che non ne avevo diritto visto che ero "sorvegliato speciale".
Rimasto solo, mi lasciai crollare sulla panchina di cemento afflitto da mille domande: “Cos’era dunque successo? Perchè quella pronta reazione della polizia? Se Duscenne aveva fatto come gli avevo chiesto, era impossibile che le cose fossero precipitate in quel modo. Una ditta commerciale maneggia assegni con frequenza e se li aveva ben staccati dal blocchetto togliendo premurosamente anche il talloncino, come del resto eravamo d'accordo, difficilmente potevano far caso ai numeri di ognuno di essi. Certamente qualcosa non aveva funzionato nell'operato di Duscenne, ma cosa? Sentivo un indescrivibile senso di vuoto attorno a me, un infinito senso di solitudine, rammarico e disgusto, il tutto percepito come un gran freddo interno e un senso di vomito.
Nella semioscurità della cella intravedevo un gabinetto alla turca, nel quale, ogni cinque minuti colava automaticamente una rumorosa scarica d'acqua. Non mi era difficile capire che la mancanza di coperte malgrado il freddo della notte e il fastidioso continuo rumore delle scariche d'acqua facevano parte di una messa in scena studiata apposta per impedire al detenuto di dormire in attesa dell'interrogatorio per "lavorarselo" meglio, infatti, passai la nottata in bianco.
Al mattino mi rimisero le manette e mi portarono al Commissariato centrale del settore dove mi rinchiusero in una grande cella assieme ad altri per tutta la mattinata. Nel pomeriggio mi condussero al mio appartamento che perquisirono a fondo, mentre io li guardavo buttare tutto sottosopra seduto in disparte, sempre ammanettato, poi mi ricondussero in cella.
Non mangiavo da ventiquattro ore ma non avevo fame ne sonno, solo un gran desiderio di fumarmi una sigaretta malgrado quell'indefinito senso di freddo interno e di vomito.
Mi sentivo schiacciato da quell'enorme apparato giustizialista così impietoso verso gli effetti del male accaduto ma così insensibili sulle cause.
Il giorno seguente, solo verso sera venni introdotto all'interrogatorio. Da ormai quarantott'ore ero a digiuno e senza dormire, ero "cotto" a puntino come volevano loro. Tanto con i poveracci potevano fare quello che volevano, siccome non vi era nessuno per difenderli e la privazione del mangiare e del dormire, con l’aggiunta della grande tensione, rende l'individuo ipersensibile a facili crisi di nervi. Vi era in più nell'attesa la vista di coloro che ritornavano dagli interrogatori, spesso sfigurati dalle percosse ricevute. Anche quelli erano trattamenti riservati a quelli che come me, non erano protetti da buoni avvocati, e quelle erano infrazioni anche peggiori della mia, ma per loro non vi era nessuno a contrastarli.

Mi introdussero in una stanzetta dove vi era un commissario seduto dietro la scrivania, pronto a battere a macchina le mie dichiarazioni, mentre io, venni addossato al muro con tre energumeni di fronte, due dei quali erano gli autori del mio arresto. Le loro facce non avevano niente da invidiare ai più brutti ceffi-tagliagole dei bassi fondi di Pigalle e senza preamboli mi strinsero contro al muro minacciosi. "Allora ti decidi a parlare o vuoi delle sberle? “Sapevo che non avrebbero esitato a malmenarmi, ma tacendo avevo la sensazione di vendicarmi sulla loro prepotenza. Credo invece che non avrei insistito nel mio silenzio se mi avessero trattato più umanamente, tanto più che la mia posizione non doveva poi essere così grave, anche se in mano avevano delle prove certe sulla mia colpevolezza o la mia complicità. Anche tacendo sarei stato condannato. Nel mio mutismo cercavo disperatamente una via d'uscita ma non ne vedevo proprio.
I tre sbirri intanto non mi davano tregua, spintoni, insulti e parolacce si alternavano alle solite domande: “Dov’è il tuo complice? Da quanto tempo durano le vostre truffe? Parla bastardo! Vuoi che ti riempia di botte? “Così dicendo mi tenevano per il bavero della giacca incollato contro la parete mentre uno che stava per darmi un pugno venne scansato da un'altro che cercava di darmi delle ginocchiate nel basso ventre senza però riuscire a centrarmi perché paravo i colpi del mio meglio. Da uno degli energumeni che mi si affannavano attorno, sporgeva dalla cintura il calcio di una pistola e per un attimo ebbi la tentazione di afferrarla, ma proprio in quel momento fu lui stesso ad estrarla, mise una pallottola in canna e me la puntò minaccioso sotto la gola gridandomi che per l'ultima volta mi ordinava di parlare. Non era certo con quel trucco che poteva impressionarmi, dato che, se li ritenevo capacissimi di sfigurarmi, non sarebbero stati coglioni al punto di spararmi a brucia pelo. Ero invece preoccupato per non riuscire a trovare una via d'uscita, una storia sensata da raccontargli e mi dovevo decidere in fretta.
Il Commissario che non aveva ancora detto una parola, intervenne per ordinare allo sbirro di rinfoderare l'arma. Erano arrabbiati per il mio cocciuto mutismo ma era quello un mio modo di vendicarmi della loro volgarità e della loro violenza. Era ormai una ripicca tra noi, pur sapendo che con quel sistema non avrei migliorato le cose.
Ma alla fine, tra la lunga veglia e il digiuno, mi sentivo esausto. Se fossi riuscito ad impossessarmi della rivoltella avrei certamente fatto una pazzia, forse fu meglio così; non che sentissi la fame o il sonno ma solo una grande tensione nervosa e avrei dato tanto per una sigaretta.

Visto che la farsa con la pistola non aveva funzionato, i tre mi spiaccicarono nuovamente contro al muro e mentre in due mi ci tenevano contro, il terzo mi sferrò un pugno allo stomaco che cercai in estremis di parare unendo le braccia in croce per proteggermi. Dopo il pugno afferrò con le due mani il bavero della mia giacca unendole strettamente sotto la gola urlandomi che, se non mi decidevo a parlare mi avrebbe strozzato all'istante. Il suo viso paonazzo era vicinissimo al mio, sentivo il suo alito puzzolente sventagliarmi la faccia, avrei avuto voglia di sputarci sopra.
Il Commissario intervenne ancora: "Senti” disse alzandosi e venendo verso di noi,
“il tuo silenzio è completamente ridicolo, abbiamo qui tutte le prove necessarie e anche tacendo verrai condannato comunque, desideriamo solo sapere come si sono svolti i fatti, fare il rapporto e liquidare la questione. Perciò il tuo silenzio non porta a niente". Mi avevano infatti trovato in tasca la chiave della cassetta a lettere, la falsa carta d'identità, e la lettera che trovai nella cassetta della posta. Come potevo discolparmi da tante prove? Quella voce che mi parlava con un tono umano ebbe più efficacia su me dei metodi rozzi degl'altri, così mi decisi a dire: "Vorrei una sigaretta".
Il Commissario fece cenno ai tre di lasciarmi e prontamente mi offri la sigaretta.
Ci sedemmo e raccontai i fatti essenziali che mi concernevano, ma di Duscenne, da quando era fuggito non ne sapevo più niente.
Mi riportarono in cella con altri, a sera partimmo in una ventina su dei furgoni cellulari suddivisi all'interno in tante piccole celle metalliche strette e completamente buie.
In ciascuna di esse eravamo in due: uno seduto, l'altro in piedi, pigiati come sardine. Dopo un breve percorso, il cellulare si fermò e due agenti armati dischiusero i vari catenacci delle piccole celle e ci fecero scendere disponendoci in fila circondati da un folto nugolo di gendarmi in uniforme, per rinchiuderci poi nuovamente nelle celle collettive del palazzo di giustizia.

Nella penombra della cella ci si intravedeva a fatica l'un l'altro, era piena di fumo, alcuni camminavano nervosamente da una parete all'altra fumando di continuo, altri erano radunati per gruppetti e spiegavano ai compagni i fatti che avevano motivato il loro arresto. Io che non avevo voglia di parlare me ne stavo seduto a terra contro la parete ad osservare il tutto.
Più che una cella il nostro era uno stanzone con un'unica porticina di legno di un largo spessore e con molti catenacci. Sopra in alto vi era un finestrino che aprirono solo a tarda sera per passarci un po’ di sbrodaglia dentro a delle scodelle di latta.
Abituato all'oscurità distinguevo meglio le facce dei miei compagni; avevano tutti l'aria di essere dei poveri cristi, alcuni sembravano addirittura dei vagabondi, altri avevano delle contusioni o addirittura erano sfigurati. Chi poteva, continuava a fumare, chi non poteva stava attento a precipitarsi sulle cicche.
Anch'io avevo voglia di fumare, ma restando in disparte, non era facile trovare chi mi offrisse una sigaretta. Sembrava di essere in un altro mondo.
Il rispettato, l'ammirato non era più il "buono" ma il "Caìd", il pezzo più grosso della mala, e ce ne era qualcuno, sempre attorniato da folti gruppi di ammiratori.
Ci si dava tutti del tu, la farsa delle differenze di classe era finita pur prevalendo un maggior rispetto per coloro che avevano una certa eloquenza o un certo aspetto più importante, i contatti, sebbene tra sconosciuti avvenivano spontaneamente. Ci si sentiva tutti dalla stessa parte, tutti un po’ complici. Ognuno voleva essere un po’ più "grande", averla fatta più grossa, essere lì per qualcosa che ne valeva la pena o invischiato in cose più importanti. Ad ogni nuovo contattato la solita domanda: E tu cos’hai fatto?” L’interpellato raccontava il suo fatto, magari esagerandolo un po’, perché chi si era fatto prendere per poco veniva considerato un pidocchio. In ogni gruppo si raccontava la modalità di esecuzione del colpo fatto ad ascoltatori attenti, che da esperti giudicavano se la tattica adoperata era quella di un professionista o di un volgare debuttante.
Solo dopo poche ore nella stanza sapevo già il nome dei principali arnesi da scasso e le varie tetniche per scassinare una porta, o per commettere un furto. Alcuni se ne stavano in disparte come mè e non parlavano, avevano un aspetto stravolto e estremamente preoccupato. Ne dedussi che come me, erano anche loro alla prima esperienza. Tra tante voci, ogni tanto sentivo qualcuno desiderare che ci trasferissero al più presto al carcere, almeno là, dicevano si potrà dormire.

I miei nervi cominciavano a rilassarsi e sentivo anch'io il desiderio di essere lasciato in pace e di dormire. Ma esaurite le novità presso i principali chiacchieroni, alcuni andavano a reperirne altre presso quelli più taciturni. Da me venne prima un "closcard" a chiedermi una cicca, ma non ne avevo. Poi venne un biondino che con un accento straniero mi espose il suo desiderio che ci trasferissero al più presto in prigione, sperando che ci mandassero in quella di Fresnes perché, diceva che quella della Santè era peggiore. “Pare che tu te ne intenda" gli dissi. "E' la terza volta che mi faccio prendere” rispose sorridendo, “e tu?"."Sono qui per la prima volta, una questione di assegni" risposi. Chiacchierammo ancora un po', poi , vinto dalla stanchezza mi allungai anch'io come tanti altri sul freddo pavimento, indifferente alla sporcizia e agli eventuali pidocchi.
Solo dopo le venti del giorno seguente ci fecero salire sui "cellulari" e ci portarono alla prigione di Fresnes dove passammo in vari uffici per le impronte digitali. Seguì la doccia disinfestante per essere sottoposti infine ad un'ultima minuziosa perquisizione. Ci consegnarono le coperte, le gamelle, e ci incolonnammo in fila per uno e fummo scortati dai secondini lungo una interminabile fila di corridoi sbarrati da pesanti cancellate di ferro. Ci fecero salire delle scale e in un ultimo corridoio ci piazzarono davanti alle celle di destinazione. La mia era la 412. Attesi immobile con la faccia al muro che il guardiano del piano venisse ad aprirmi. Quando arrivò, fece scattare due grosse serrature, ne tirò i massicci catenacci e si scansò per farmi entrare dicendomi: "Sbrigati a svestirti, poi metterai fuori nel corridoio gli abiti e la scarpa sinistra, io aspetto". Entrai col mio fagotto, due detenuti erano seduti su degli sgabelli e giocavano con delle carte disegnate a matita su un piccolo tavolino piazzato nel bel mezzo della cella. In un angolo vi era un water con a fianco un piccolo lavabo, un armadietto e tre letti. Al mio saluto i due risposero con un cenno del capo. Misi fuori i vestiti e una scarpa, il guardiano richiuse e se ne andò.

"Hai una sigaretta?” chiese il più giovane dei due. “Mi spiace ma sono senza" replicai, e i due si rimisero a giocare. Meglio così, non avevo voglia di parlare. Mi feci il letto e mi coricai pensando a Ferruccio che non sapeva niente e che continuava ad aspettarmi fiducioso al suo appartamento, modesto ma arredato con gusto. Pensavo al nostro progetto per Nizza, tutto non era stato che un sogno, un sogno troppo bello per avverarsi. Nella triste realtà ero sprofondato in un abisso, avevo oltrepassato la barriera e mi trovavo nel mondo dei sovversivi. Perderò l'appartamento, pensavo, mi riprenderanno la macchina che ho lasciato in strada, le mie cose personali, tutto. All'uscita dovrò ricominciare di nuovo, ma ricominciare cosa se dopo tanti anni di lavoro dovevo tirare avanti a forza di panini in attesa della busta paga. Chissà per quanto tempo dovrò restare in prigione, tenendo conto del fatto che sono incensurato e che il mio non è stato che un tentativo di truffa senza che vi sia stata una parte lesa, non dovrei prendere molto, ma non so come si comporteranno con uno straniero.
Trascorsi le prime notti dormendo pochissime ore di un sonno agitato, anche perché, essendo sempre rinchiusi non si aveva la possibilità di stancarsi. Solo dopo alcuni giorni il fisico si adattò alla nuova vita. Ero sempre stanco, dormivo tutta la notte e avrei dormito anche parte del giorno se non fosse stato vietato.
I miei primi compagni di cella, un vecchio "closcard" e Jesus un portoghese, se ne andarono presto. Il primo fu rimesso in libertà, l'altro, che assieme al fratello era stato condannato a diciotto mesi per furto con scasso, fu trasferito. Appena ne partiva uno ne arrivava un'altro in modo che in cella eravamo sempre in tre, a volte quattro o anche cinque ma generalmente in trè.

Dicembre "67.

Quella mattina si doveva svolgere il mio processo, avrei saputo finalmente a quanto ammontava la mia pena. Per nove mesi avevo aspettato in carcere quel momento, nove mesi rinchiuso in quella maledetta cella. Nel frattempo ero stato convocato ben otto volte al palazzo di giustizia per interrogatori e confronti con Duscenne, arrestato anche lui. Ebbi anche l'occasione di sapere tramite il mio avvocato d'ufficio, come realmente si erano svolti i fatti che avevano provocato il mio arresto immediato. Duscenne, che era da tempo ricercato dalla polizia, non aveva rubato gli assegni a una ditta commerciale come mi aveva assicurato, ma addirittura ad un ufficiale giudiziario. Non seppi per quale motivo si fosse recato da lui, ma seppi solo che durante il colloquio, il funzionario fu richiamato in un'altra stanza da una telefonata. Il Duscenne ne approfittò per sottrargli alcuni assegni dal blocchetto rimasto sulla scrivania assieme ad una piccola somma di denaro. Intascò il tutto e se la diede a gambe. Quando il funzionario ritornò nell'ufficio, non trovò più Duscenne e vedendo che con esso era sparito anche il denaro, automaticamente controllò anche il blocchetto degli assegni. Notando che ne mancavano avvertì immediatamente sia la polizia che la banca, la quale, ricevuta la mia lettera con dentro gli assegni, indicò alla polizia l'indirizzo del beneficiario. Questo risultava essere il Boruso alias io stesso e fu estremamente facile alla polizia tendermi la trappola.
Ma, dico io, proprio a me doveva capitare quel Duscenne.

Durante i lunghi nove mesi già trascorsi in carcere ricevetti più volte la visita di un ufficiale della Legione Straniera, era sempre in borghese e non saprei dire chi fosse esattamente, il fatto stà che dapprima volle, diciamo, tastarmi il polso informandosi della mia situazione in genere, infine mi disse di non preoccuparmi dato che mi avrebbe tirato fuori, anzi, mi disse, “ Se vuoi puoi uscire oggi stesso, basta solo che firmi per altri trè anni nella Legione”. Al mio rifiuto se ne andò e non lo rividi mai più.
La cosa che tuttavia non capirò mai è il fatto di come io abbia potuto in una Parigi andare a scovare un personaggio la cui incoscienza non poteva assolutamente mancare di farci finire entrambi nel modo in cui è finita.

Alle sei e trenta del mattino mi fecero scendere dopo la solita perquisizione al piano terra, dove mi rinchiusero assieme ad una trentina di detenuti in una piccola cella. Dovevamo essere tutti processati il giorno stesso e tra noi vi era un certo nervosismo. Si fumava più del solito rendendo l'aria del piccolo ambiente irrespirabile. Stavamo tutti in piedi stretti gli uni contro gli altri ad aspettare. Intorno si facevano discorsi di circostanza: " Chi è il tuo giudice? In quale Camera verrai processato?" Chiacchieravo anch'io con qualcuno degli amici che mi ero fatto. Si diceva che il mio giudice era molto severo, ma che dopo nove mesi di detenzione avevo molte probabilità di avere già scontata la pena e che probabilmente sarei uscito la sera stessa, anzi, certamente avevo già fatto una detenzione superiore alla condanna.
Avevo ancora un po’ di soldi dal saldo inviatomi dalla società per cui avevo lavorato ultimamente. Appena avevano saputo del mio arresto si erano affrettati a mandarmeli col licenziamento. Naturalmente la somma non ammontava neanche alla metà del dovuto, e solo dopo il mio protestare tramite l'assistente sociale del carcere, me ne spedirono ancora una parte. Come sempre non ancora il saldo esatto e non mi fu possibile insistere per avere il resto, dato che l'assistente mi fece capire gentilmente di non abusare troppo della sua missione altruistica.
Alle otto ripassammo alla perquisizione uno per uno in una cella attigua. Quando entrai il guardiano mi ordinò di spogliarmi nudo mentre uno di loro controllava i vestiti. L'altro di fronte a me mi fece alzare le braccia per guardarmi sotto le ascelle, poi mi ordinò di girarmi e di chinarmi. Poi mi fece rimettere dritto e mi fece alzare un piede, poi l'altro e finalmente mi concesse di rivestirmi. Non era la prima volta che mi perquisivano ma non mi ero ancora abituato a tanta umiliazione.
Mi ero fatto rasare e avevo la faccia che bruciava, al barbiere, un detenuto anch'esso, da un po’ di tempo non davo l'abituale sigaretta e lui, per ricordarmelo quando mi rasava aveva la mano pesante. Solo quando potevo "pagarlo” il suo rasoio passava sulla mia pelle leggero come una piuma.
Alle nove ci avviammo in colonna verso l'uscita lungo gli interminabili corridoi. Uno dietro l'altro in silenzio, mani dietro la schiena e inquadrati da numerosi guardiani. Prima di uscire ci fecero sostare in un'altra cella. Riapparvero le sigarette, si riprese a chiacchierare. Popòl, un ladro di macchine che mi era sempre vicino, mi chiese se avevo sentito le urla della sera prima. “E' un nuovo arrivato che si è lasciato prendere da una crisi di nervi”, mi disse, “ha saputo che la moglie lo ha lasciato ed è partita coi due figli assieme ad un'altro, tutte vacche le donne” continuò Popòl sputando a terra.” Gli è venuta una crisi ed ha spaccato tutto quello che ha trovato attorno con uno sgabello. Poco dopo sono entrati nella sua cella in cinque o in sei guardiani e lo hanno riempito di botte fino a farlo svenire, poi lo anno portato al "Mittard", cioè la prigione della prigione, tutti porci sti guardiani" aggiunse sputando nuovamente.
Succedeva quasi ogni sera, chissà perché sempre di sera che qualcuno si lasciasse prendere da una crisi di nervi o che qualcuno tentasse un suicidio. Alla prima crisi venivano spediti al Mittard, se questa si ripeteva allora li mandavano in manicomio dove si finiva per diventare pazzi sul serio.
Alle undici, dopo l'appello, ci fecero salire su degli autobus speciali, con i vetri tinti di bianco e rafforzati da griglie. Ai due lati vi erano due file di piccole celle in grigliate metalliche e in ognuna della quali eravamo in quattro. Per ultime salirono quattro ragazze abbastanza carine che come noi dovevano essere processate.
Tra i due sessi nacque spontanea una simpatia che subito si manifestò con battute scherzose anche per alleggerire un po’ la tensione generale. "Ehi” disse una di loro, “Si, tu tirati da parte che veda quel bel ragazzo che ti sta dietro, si proprio tu, sai che mi piaci?" "Questa sera se siamo liberi ci vediamo" rispose il Romeo.
Le ragazze si sedettero scomposte, lo facevano apposta per farci sgranare gli occhi, o per prendere in giro i carcerieri. Vi erano anche dei minorenni, una diecina di ragazzi dai dodici ai quindici anni. Cercavamo tutti di apparire allegri anche se solo per nascondere l'ansia che non escludeva nessuno.

Arrivati al palazzo di giustizia vi fu un'altro appello per controllare nuovamente se vi erano tutti. Poi ci rinchiusero in piccole celle buie del palazzo stesso denominate le "trente six carreaux". A mezzogiorno ci distribuirono il pranzo consistente in due uova sode a testa. Alle quattordici iniziarono i processi e quando arrivò il mio turno mi sentivo molto emozionato.
Ci chiamarono fuori dalla cella in quattro e ci ammanettarono. Alle catene delle manette venne agganciato un guinzaglio con due attacchi, uno per persona.
Ogni gendarme si tirava dietro al guinzaglio due detenuti. Così conciati attraversammo innumerevoli corridoi sotterranei denominati "la souriciere", ossia la topaia, fino a sbucare davanti alla dodicesima camera correzionale.
Il mio avvocato d'ufficio, un certo Cirotteau, eccezionalmente molto interessato alla mia causa, cosa strana per essere un avvocato d'ufficio e al quale fui e sono tuttora riconoscente, mi venne incontro fregandosi le mani soddisfatto e dicendo che ero fortunato perché pareva che quel giorno il giudice fosse di buon umore. Duscenne era vicino a me. Entrammo nell'aula e ci sedemmo sul banco degli accusati. La sala era piena di curiosi venuti ad assistere ad uno spettacolo gratis.

Entrò la corte e il presidente iniziò ad enumerare i precedenti di Duscenne e ne aveva tanti! Poi venne il mio turno. Espose i fatti e terminò col dirmi: “Credete di aver fatto una bella cosa in un paese che vi ha accolto fraternamente, ospitandovi e dandovi lavoro? E' così che dimostrate la vostra riconoscenza? Cosa si direbbe in Italia se un francese andasse a fare il lavativo?. Era troppo. Questo non me lo doveva dire, era la famosa goccia . Da quando ero in Francia non sentivo altro che frecciate per il mio stato di straniero. Ovunque mi rinfacciavano quella generosa elemosina che mi facevano, mentre in realtà tutti mi avevano fregato a cominciare dai governanti stessi, e nessuno teneva conto dei miei meriti. Ero io che sentivo di essere stato generoso con loro ad avere tante volte rischiato la vita per i loro interessi.
E quella manfrina della loro pietosa carità me la ero sentita ripetere ultimamente ancora più spesso. Dal direttore del carcere, dal prete al quale avevo chiesto un libro e dall'assistente sociale. Per terminare il giudice mi chiese: “Avete qualcosa da dire in vostra difesa?". Ero sconvolto e arrabbiato, non capivo perché mi si rinfacciasse sempre la mia "cattiveria", la mia nazionalità piuttosto che il grado di colpevolezza.
Il mio carattere solitamente mite mi aveva reso sopportabile, anche se a fatica certe avversità e ingiustizie. Non ne potevo più e quando il vaso trabocca mi capita di avere reazioni insolite che mi trasformano. Non sopportavo più che quella gente continuasse a vedere in me solo il delinquente, l'irriconoscente, l'usurpatore che non ero. Semmai ero io ad essere stato defraudato dei miei diritti, sia dai loro governanti che dai numerosi datori di lavoro. Loro mi avevano imbrogliato, spogliato dei miei beni e da ogni possibilità di sopravvivenza. I miei occhi vedevano ormai nei giudicanti coloro che avrebbero dovuto essere giudicati, loro erano i veri colpevoli.

Mi alzai e cominciai ad esporre i fatti mentre il giudice esaminava il mio libretto militare della Legione, i certificati di buona condotta italiani e francesi. La mia voce alterata dall'emozione era forte, quasi un grido, "....In nove mesi di detenzione è la quarta volta che mi sento rimproverare di essere venuto in Francia per comportarmi male, per abusare dell'ospitalità, ma nessuno ha mai tenuto conto del fatto che io abbia mille volte rischiato la vita durante cinque anni per il vostro paese!. L'avvocato seduto accanto a me mi tirava per il fondo della giacca facendomi disperatamente segno di tacere. Delle esclamazioni di indignazione e di stupore si alzavano tra gli spettatori, ma ero esploso e chi mi teneva più? "Sono io ad essere stato truffato dai vostri governanti con le promesse che mi hanno fatto e che non sono state mantenute! Non sono state mantenute le parole stesse del colonnello Rafanò quando ci disse a tutto il battaglione riunito ” voi siete tutti francesi, non per il sangue ricevuto ma per quello versato" Sì, mi sentivo fiero, anche quando durante le sfilate i civili che vi assistevano aspettavano solo il passaggio dei legionari per gettare fiori, grida di entusiasmo e scrosci di battimani,ma quando ne sono uscito gli stessi civili, le stesse autorità per poco non mi sputavano in faccia, nessuo voleva più aver a che fare con un ex legionario. Sì, è vero che ho sbagliato, ma l'ho fatto per sopravvivere mentre i governanti francesi mi anno ignobilmente ingannato. Sapevo benissimo che il mio atteggiamento non era adeguato a commuovere la corte, ma non mi importava più niente. Mi pareva ad un tratto di avere davanti a me i veri colpevoli, colpevoli di tutte le mie sventure. Il rancore accumulato in tanti anni di sopportazioni e di umiliazioni mi saliva alla testa e si sfogava d'un colpo come un uragano. Nessuno mi tratteneva più malgrado vedessi alcuni tra la corte scuotere negativamente il capo, malgrado sentissi esclamazioni di sdegno tra la folla e il mio avvocato mi pregasse di tacere. Ormai ero in pieno combattimento, non avevo più davanti a me dei poveracci che ammiravo sebbene fossi stato obbligato a sparargli contro, ma dei veri colpevoli; ed era con entusiasmo che avanzavo sparando incurante delle numerose pallottole che mi fischiavano attorno. Anche la mia voce gridava con lo stesso tono rauco che usavo per ordinare l'assalto. Ma la mia piccola guerra non era in realtà che un sussulto disperato di uno che stava per soccombere e più la mia reazione era vivace più davo la possibilità ai miei nemici di incastrarmi.

Infatti scelsi ben male il momento di fare la mia guerra. Quando ebbi finito il giudice disse semplicemente: “La corte prenderà atto della vostra deposizione". L’avvocato della pubblica accusa prese la parola facendo notare alla corte quanto io fossi impenitente ai miei peccati e chiese il massimo della pena: Tre anni.
Dopo il mio bel discorso l'avvocato poteva dire ben poco in mia difesa e la corte si ritirò per ricomparire un'ora dopo. Mi vennero confermati tre anni di detenzione più cinque di interdizione di soggiorno con domanda di espulsione.
Mi girava la testa. Al ritorno eravamo tutti silenziosi, solo pochi discutevano delle pene inflitte. Tre anni! Pensavo tra me e me. Sarei stato trasferito con le catene alle caviglie in un'altro carcere, che umiliazione.
Appena in cella i miei compagni mi vennero attorno per chiedermi: "Allora esci questa sera?" "Tre anni” risposi. Non lo credevano possibile , stentavo a crederlo anch'io.
Avevo osato dire la verità e non ne avevo il diritto. Alla faccia della libertà
della uguaglianza e della fraternità di cui hanno fatto il loro simbolo. Avrei dovuto invece accasciarmi ai loro piedi e dirgli quanto ero stato cattivo malgrado la loro infinita generosità e di quanto ne ero pentito. Avevano punito questo più che l'infrazione.
Avevo avuto il diritto, che dico, il dovere di uccidere ma non quello di sopravvivere. Avevano avuto il diritto di truffarmi ma non quello di truffare.
Ero solo io il cattivo anche se non avevo arrecato danno a nessuno, mentre coloro che realmente mi avevano ingannato restavano tra i "buoni". Mi avevano messo con le spalle al muro, ma non dovevo reagire. Quante cose per me erano ingiuste.
Mi coricai disgustato del mondo intero e più che mai convinto che, non la giustizia ma solo i più forti hanno sempre ragione.