Parte I
Mi fermai una quindicina di giorni alla "Casa del Legionario"
di Sidi Bel Abbès, tanto per non lanciarmi a testa bassa nel tumulto
della vita civile, dove avrei rischiato di lasciare i miei pochi soldi
intontito e frastornato dalla nuova vita così diversa da quella
militare da farmi già sentire come un pesce fuor d'acqua.
Lì, la pensione non era cara e mentre mi riposavo potevo informarmi
meglio su quale direzione prendere. In quella specie di albergo si fermavano
parecchi ex legionari che come me desideravano rimanere in Algeria. Era
una specie di scalino intermedio tra la caserma e la futura vita civile
che consentiva una sosta di riflessione prima di prendere il distacco
definitivo dalla vita militare, o per certuni lo sgocciolatoio per gli
ultimi soldi prima del rientro alla Legione.
Non mi pareva vero di non avere più nessuno che predisponesse per
me ogni mio gesto. Non aver più la ritirata serale, gli allarmi,
mangiare regolarmente potendo scegliere un piatto diverso se quello non
mi andava, poter dormire tranquillo anche se il nuovo letto era per me
troppo molle e nelle prime notti preferivo dormire sul pavimento per riuscire
a prendere sonno.
I miei pensieri erano tutti rivolti al prossimo futuro. Cercavo con interesse
di captare tutte le informazioni possibili per sapere cosa fosse meglio
fare o dove fosse meglio andare. Sapevo solo con certezza che dovevo farcela,
poi che diammine, un ex legionario, più volte decorato e caporale,
non dovrebbe avere difficoltà ad inserirsi e trovare un lavoro
tra civili che stravedevano per lui.
Decisi per Algeri e partii dopo una quindicina di giorni pieno di speranze.
Affittai una cameretta in un modestissimo hotel mussulmano, modestissimo
ma caro al tempo stesso, e cominciai a darmi da fare per trovare un lavoro.
Mi orientai alle società petrolifere che in prevalenza erano francesi,
ma nell’ attesa avrei accettato qualsiasi lavoro.
Tolte le spese per alcuni vestiti borghesi, le mie sostanze ammontavano
a centoventimila franchi. Ne pagavo millecinquecento solo per dormire,
avevo ancora un po’ di respiro, ma dovevo darmi da fare.
Mi misi a leggere sui giornale le offerte di lavoro e iniziai a recarmi
presso le ditte che richiedevano mano d’opera. In particolare mi
recavo da coloro che richiedevano degli autisti per il Deserto, avevo
la patente militare ma andava bene lo stesso, si trattava solo di farla
tramutare in civile. Prima però era necessario trovare un lavoro.
Negli uffici volevano sapere anzitutto qual era la mia nazionalità
e da dove venivo. Infine mi dicevano di non potere ingaggiare lavoratori
stranieri, perché vi era una legge che proibiva alle ditte di assumerne
oltre il venti per cento dell’effettivo quel venti per cento sfortunatamente
era già stato superato.
Gli rispondevo che non ero straniero, dal momento che avevo fatto ben
cinque anni nella Legione e tramite i quali avevo acquisito tutti i diritti
di qualsiasi cittadino francese. Me lo avevano comunicato sia negli uffici
a Modane che in quelli di Marsiglia, lo dicevano gli alti ufficiali militari
e perfino il presidente De Gaulle lo aveva detto.
Mi guardavano con una strana espressione e solo in seguito avrei saputo
cosa significava: " Povero fesso, credi di darci una referenza dicendoci
di essere stato nella Legione". Inizialmente non me ne rendevo conto,
impossibile pensavo che tanta gente abbia mentito, e continuavo a spiegargli
che assumendomi non potevano infrangere nessuna legge perché non
ero uno straniero comune; che forse non capivano bene che per la Francia
eravamo dei cittadini francesi a pieni titoli. Che ero proprio uno di
quelli che avevano applaudito tanto, che ero anche pluri decorato, e nella
foga di chiarire quello che credevo un semplice malinteso non mi rendevo
conto del sorrisetto di tollerante compassione degli addetti alle assunzioni.
Solo a forza di essere più volte messo alla porta con gentile fermezza,
compresi di essere stato un grande ingenuo a non avere capito prima.
Ma non mi arrendevo così, ricominciavo a presentarmi ad altri datori
di lavoro, di qualsiasi lavoro, ogni volta con rinnovate speranze, seguite
però da altre delusioni.
E così per giorni, per settimane. In un mese avevo percorso la
città da un lato all'altro chissà quante volte, ma pareva
si fossero tutti messi d'accordo. Quando mi presentavo sentivano subito
il mio accento straniero e diventavano sospettosi, non tanto per il fatto
che fossi straniero ma per quello che appunto fossi ex legionario. Non
potevo negare il passato, quelli cominciavano a chiedere: " Da dove
vieni? Dove hai lavorato fino ad ora?". Non c’era via di scampo
dato che tutti i miei documenti erano ancora militari e mostrandoli conoscevo
già la risposta.
Mi muovevo a piedi per risparmiare. In un giorno intero non potevo visitare
molti posti. Inoltre le offerte di lavoro restavano valide solo qualche
ora dopo l'uscita dei quotidiani e i posti disponibili in genere venivano
occupati. In certi uffici si formavano lunghe file di gente europea e
indigena che come me era alla ricerca di un lavoro. Per questo al mattino
mi alzavo presto per fare frettolose e interminabili camminate. Verso
le dieci le speranze erano già diminuite, ma continuavo a cercare
fino a sera, se non altro per non restare nella stanza a disperarmi. Camminando
tutto il giorno in pieno agosto sotto un sole cuocente, arrivavo a sera
stanco e sudato per gettarmi sul letto avvilito e senza impiego.
Fu durante una di queste interminabili camminate che quasi mi scontrai
ad un angolo di una casa con Hillery, il caporale che era nella mia squadra.
Aveva una barba di tre o quattro giorni, anche lui dimagrito e sudato.
Mi fece un gran piacere incontrare un volto amico in una città
così ostile. Ci scambiammo qualche esclamazione di sincera gioia
e di sorpresa accompagnate da amichevoli pacche sulla spalla. " Dunque”
gli dissi, “anche tu sei rimasto in Algeria, cosa fai di bello?
Sei in cerca di lavoro?". Mi rispose avvilito che da due giorni non
mangiava, che non sapeva più dove sbattere la testa e da quindici
giorni cercava lavoro senza riuscirci. Era uscito con Lopez e Hermann,
ma i due avevano ceduto e si erano rivolti alle prima caserma che avevano
trovato per aruolarsi di nuovo.
Ma lui no, lui non voleva arrendersi, e su questo ero pienamente d’accordo.
Gli risposi che anch'io cercavo lavoro da quasi un mese correndo come
un disperato in tutti gli uffici dove cercavano mano d’opera senza
riuscire a farmi ingaggiare, perché il fatto di essere degli ex
legionari, continuai pieno di rancore, invece di costituire un aiuto era
come per noi, avere un marchio d'infamia. Nessuno ci voleva, ci credevano
tutti dei ladri e dei criminali il cui ruolo è solo quello di rischiare
la vita per loro.
Ci rimproverano in qualche modo di voler essere come gli altri e ci condannano
isolandoci. “ Quei porci...ed ora che si fa?”. “ Bah”
rispose Hillery, “non sai dove ci sia una fontana? Sto morendo di
sete, poi vedrò di trovare un posto tranquillo per passare la notte
e domani continuerò a cercare lavoro”.
Decisi di finire i miei pochi soldi assieme a lui anziché farmeli
succhiare per quella cameretta in hotel.
Ormai era sera, parlavamo camminando per le vie periferiche della città.
Feci rapidamente i conti delle mie risorse: quindicimila lire, mangiando
solo panini per un po’ di tempo potevamo tirare avanti, gliene offersi
subito uno che accettò con piacere.
Mentre mangiavamo davanti ad un boccale di birra in due, mi disse masticando
con appetito: " Sacrè Eliò, va, ti ricordi quel giorno
che trasportammo nei camion quei centoventi cadaveri di Fellagà
che scaricammo nella piazza di Giriville, eh?. Quel giorno ricuperai sei
orologi ai polsi dei cadaveri, cinque li ho venduti subito appena uscito
dalla Legione, l'ultimo, il più bello, ho dovuto venderlo l'altro
giorno per una fischiata”, peccato". Io annuivo, ma ero troppo
preoccupato per interessarmi a quei ricordi. Hillery tuttavia insisteva:
"E quella volta che il tenente Amelin tagliò l'orecchio al
capo tribù di quell'accampamento perché non voleva che portassimo
la sua gente a votare per il referendum, ricordi?. E quel prigioniero
che il tenente ti aveva incaricato di eliminare, l'hai poi fatto fuori?”.
“No” risposi, “ci pensò Preskar col pugnale".
Eravamo infatti appostati per tendere un'imboscata, e nella mia équipe
avevamo un Fellagà catturato poco prima, era ferito e si lamentava
perché soffriva e aveva sete. Non si poteva fare rumore, i ribelli
erano vicini. Non avevamo acqua nemmeno per noi e tutti avevamo sete.
Il prigioniero continuava a lamentarsi finché arrivò il
tenente per dirmi di eliminarlo in silenzio, non ne ebbi il coraggio.
Così fu Preskar a portarlo a qualche metro più in là
e finirlo col suo pugnale.
" E lo svizzero che marciò con noi per la prima volta, ricordi
come lo uccisero?" “Sì” anche quell'episodio lo
ricordavo perfettamente; il povero cristo proveniva da degli uffici dov'era
contabile. Fu mandato con noi per punizione perché si ubriacava,
non aveva mai fatto delle marce ne aveva mai sofferto la sete d'acqua;
e sotto quel sole scottante per la prima volta, si era preso una solenne
insolazione.
I graduati, credendolo ubriaco, lo mandavano avanti a suon di calcioni
e spinte, lui barcollava e cadeva ma lo rialzavano e continuavano a mandarlo
avanti con calci e spinte. A sera, quando arrivammo ai camion lo stesero
su una barella e lo lasciarono a terra vicino a noi seduti a fianco dei
veicoli. Pareva veramente ubriaco, ma vedendolo agitarsi sulla barella
con gli occhi spalancati alla continua ricerca del suo fucile, capimmo
che stava delirando, perciò chiamai il medico, ma quel coglione
se la prese comoda a venire. Quando infine si decise fu solo per schiaffeggiarlo
promettendogli che appena rientrati lo avrebbe spedito al "Tombò",
e per non essere più disturbato lo legò saldamente alla
barella stessa. Mentre chiacchieravamo vicino a lui, mi accorsi che non
respirava più. Il medico non aveva intuito la gravità del
male e al nostro richiamo accorse allarmato. Gli si accostò dicendo
."Ohè, oilà, non fare lo stupido, eilà!".
Così dicendo lo schiaffeggiava sulle guance, e constatando che
veramente aveva cessato di respirare gli fece una grossa iniezione direttamente
al cuore, al ché il poveretto ebbe un gran fremore in tutto il
corpo, poi più niente.
"Io”, continuava Hillery, “sarei stato disposto ad avvertire
la famiglia per dirle come esattamente erano andate le cose se solo avessi
saputo l'indirizzo! Scommetto che gli avranno mandato a dire che era morto
in combattimento"
Ma non avevo più voglia di ascoltare quelle cose e gli chiesi dove
intendeva passare la notte. "La scorsa notte la passai su una panchina
di un giardino pubblico, un po’ freschino ma si è tranquilli,
ritorniamo lì, ti va?"
Era già notte fonda quando arrivammo nel parco e vi cercammo due
panchine vicine, ormai non avevamo più niente da raccontarci. Ci
sdraiammo sopra le panche rinchiusi ognuno nei nostri pensieri.
Certo, il fatto di trovarmi in sua compagnia mi confortava in qualche
modo, anche se la situazione non cambiava, anzi, spartendo i miei pochi
soldi con lui avrei affrettato ancor più la fine. Eppure con lui
mi sentivo meno a disagio, aveva un carattere più allegro ed era
più spigliato di me, sapeva fare una cosa anche umiliante con disinvoltura
e spensieratezza comunicandomi in parte quella sua esuberanza che placava
un po’ la nostra tragedia rendendola più tollerabile. Sapeva
prendere le cose quasi come un gioco, anche le peggiori. Pensavo che infine
faceva bene, tanto non avrebbe cambiato niente strapparsi i capelli. Certe
cose che feci con lui ridendo, non avrei mai osato farle da solo; il mio
carattere umile e orgoglioso allo stesso tempo me lo avrebbero impedito,
mi sarei rinchiuso, avrei sofferto, avrei odiato, ma non avrei chiesto
niente a nessuno, nient'altro che un lavoro.
"Sai” disse Hillery, “domani andiamo in una chiesa che
conosco io, e al parroco spiegheremo la situazione, vedrai che ci aiuterà,
quella gente ha le braccia lunghe hanno conoscenze in tutti i settori,
in tutte le classi sociali, e lui vedrai che un lavoro ce lo farà
avere".
Io non avrei mai pensato di chiedere aiuto ad un prete, e non lo avrei
neanche mai fatto, ma per quello che ormai avevo da perdere decisi di
seguirlo, quasi divertito in quel tentativo, in fondo pensavo, i preti
non sono là per aiutare la gente?
Malgrado fossimo abituati a dormire sul duro e all'aria aperta, tardavo
a prendere sonno. La panchina era stretta e non potevo girarmi, avrei
preferito dormire a terra, se non fosse per il timore di sporcarmi e con
i vestiti sporchi avremmo ancor più difficoltà a trovare
lavoro.
Due derelitti ecco cosa eravamo, se ci avessero scoperto in quel parco
probabilmente ci avrebbero arrestati per vagabondaggio. Avevamo un bel
da farci coraggio l'un l'altro, ma la situazione era quella che era.
Le stelle nel cielo brillavano numerose con grandiosa purezza, com'erano
lontane nell'immensità del Cosmo. Cosa siamo noi al confronto se
non dei microscopici mostricciatoli intenti a distruggerci a vicenda quando
non distruggiamo il mondo stesso che ci ha generati? Le finestre dei palazzi
attorno erano ancora tutte illuminate e in ognuna di quelle luci vi era
un affetto, un letto, un calore umano, un riparo e un'intimità.
Noi eravamo lì ai loro piedi, ignorati e disprezzati dopo essere
stati i loro guardiani, i loro protettori, i difensori delle loro case
e dei loro beni. Con quanta indifferenza ora ci rifiutavano, eppure eravamo
i loro preferiti quando scendevamo dai monti ancora sporchi di sangue.
Ed ora cos'era che ci rendeva inaccettabili? Forse era la parte peggiore
di loro stessi che intendevano fare restare nell'ombra. Ci consideravano
dei violenti, dei sanguinari solo perché avevamo fatto noi quello
che volevano che i loro governanti ci facessero fare. Ed ora che le nostre
mani si erano coperte di sangue a differenza delle loro rimaste pulite,
noi risultavamo i cattivi violenti. Loro inoltre erano rimasti i benpensanti,
magari i pii osservanti credenti nel perdono e l'altruismo.
Mi ritornavano alla mente le sfilate e gli applausi che le accompagnavano.
I fiori che gettavano per noi legionari, eppure la gente sembrava così
fiera di noi, lo si notava dal calore dei loro volti, quel calore tramutato
ora in un ghigno di pietoso disprezzo. "Sarete cittadini francesi
con pieni diritti" ci dicevano i grossi legumi alla Legione e con
questa scusa ci pagavano come semplici reclute della regolare. "Siete
francesi, non per il sangue ricevuto, ma per quello versato" intonava
De Gaulle. Ma fummo francesi solo per dare, non per ricevere. Per quanto
mi sforzassi di pensare non riuscivo a capire cosa ci rimproveravano;
forse di non essere rimasti a difenderli o forse di non essere morti per
loro.
Malgrado la stanchezza non riuscivo a dormire, il venticello fresco che
faceva tremare le foglie degli alberi e anche un po’ il mio corpo.
Verso le nove ci recammo alla porta di sevizio di una grande chiesa vicino
al centro della città, suonammo il campanello ed apparve una vecchia
signora che vedendoci, assunse un'aria infastidita per chiederci tra l'uscio
semichiuso cosa volevamo. Hillery le chiese di poter parlare col parroco,
la donna richiuse e scomparve ancor prima che il mio compagno finisse
di parlare. Il belga mi guardò sorridente e mi disse con una strizzatina
d'occhio e fregandosi le mani soddisfatto: "Tu lascia fare a me,
vedrai come ti sistemo la faccenda". Poco dopo ricomparve la vecchia
con due pezzi di pane e due minuscoli pezzetti di formaggio. Ci porse
il tutto dicendo che il parroco era occupato e che non aveva tempo per
riceverci, poi scomparve richiudendo prestamente la porta.
Tenevo in mano il mio pezzo di pane sbalordito per ciò che era
accaduto, restavo lì impietrito e vergognoso, mentre Hillery rimase
un po’ perplesso nel guardare la porta chiusa. Mi osservò
e vedendo la mia faccia umiliata scoppiò in una gran risata, poi
si mise a mangiare con gusto. Quel pane mi bruciava le mani, feci il gesto
di gettarlo ma il mio compagno, intuendo le mie intenzioni, fermò
il mio braccio, prese anche il mio pane e se lo mise in tasca per mangiarlo
più tardi.
Pensandoci bene avevamo l'aspetto di due vagabondi, le barbe lunghe, i
capelli spettinati e i vestiti sgualciti. Un prete, pensavo, non riceve
gente di aspetto come il nostro e per giunta squattrinata. Così
conciati era in effetti più facile ricevere un'elemosina che un
lavoro.
Hillery però non sembrò scoraggiato perché finito
di mangiare disse: "Non ha funzionato dai cattolici, proviamo dai
protestanti":
Ci recammo
verso Hidrà, un quartiere ricco della periferia dove attorniata
da un grande parco vi era una enorme villa. Suonammo decisi il campanello,
una signora di mezza età piuttosto corpulenta si affacciò
alla finestra e ci interpellò con aria affabile. Mi aspettavo di
vedere la sua gentilezza scomparire di botto rendendosi conto con chi
aveva a che fare, ma il sorriso stampato sul suo volto non si spense quando
rientrò dicendo che avrebbe avvisato il marito. Ci introdusse poco
dopo in un gran salone riccamente arredato dove ci raggiunse il pastore
che ci salutò. Poi, seduto in una comoda poltrona ci ascoltò
con benevolenza e infine disse: "Sentite ragazzi, io posso darvi
alloggio, per il resto, cioè per il vitto e il lavoro dovrete sbrigarvela
da soli, perché qui ne vengono tanti nelle stesse condizioni vostre
e non posso assumermi la responsabilità di tutti. Per dormire dunque
potete accomodarvi in quella serra là in fondo dove troverete altri
compagni e dove potrete restare anche un mese se volete, senza pagare
niente. Cercate solo di tenere pulito e di rientrare la sera prima delle
dieci".
Lo ringraziammo e ci recammo nella serra dove in tre stanzoni enormi vi
erano sistemate un centinaio di brande militari sovrapposte due a due
o per tre, e dove avevano trovato rifugio anziani legionari e vagabondi.
Eravamo se non altro contenti di aver trovato un rifugio, perciò
scegliemmo due brande vicine e ci installammo.
I miei pochi soldi erano già arrivati agli sgoccioli, io e Hillery
ci nutrivamo solo di panini con o senza qualcosa dentro.
Riprese frenetica la ricerca di un lavoro e due giorni dopo il mio compagno
rientrò felice perché aveva trovato un posto come autista
nel Sahara e partiva all'indomani stesso. Per tutta la serata non fece
che parlarmi di progetti per il futuro e del camion che gli avrebbero
affidato che aveva già provato.
Io mi sentivo malinconico, il pensiero di separarmi da lui, soprattutto
ora che non avevo più un soldo, e quello di non aver ancora trovato
un lavoro non mi permetteva di condividere la sua esuberanza.
Ero ridotto veramente male, avevo le scarpe bucate, i soldi finiti, ma
nella grande serra tuttavia non ero il solo ridotto così. Molti
guardavano con invidia chi ancora tirava fuori un pacchetto di sigarette,
o anche solo una sigaretta intera. Molti erano ridotti a raccogliere le
cicche o a mendicare il resto di un panino. Cominciavo ad odiare i civili
di quella città, pur sapendo che non erano migliori ne peggiori
di tanti altri.
Hillery era stato più fortunato per il fatto che la sua madre lingua
era il francese e veniva generalmente accolto con meno sospetti dai datori
di lavoro. Io, appena aprivo bocca si accorgevano che ero straniero e
allora cominciavano a farmi un sacco di domande.
Nella disperazione continuavo a uscire più per la necessità
di scaricare i miei nervi che per la speranza di piazzarmi. Ormai incredulo
mi recai presso una compagnia del genio militare che cercava autisti civili
per il Sahara. Quando il capitano mi chiese le referenze mi apprestai
a ripetere il solito ritornello per poi attenermi la stessa risposta:
" Vede, per ora non ci occorrono lavoratori stranieri, ma più
avanti chissà...", invece al contrario mi disse: " Bene,
quando è disposto a partire?".
Il giorno
seguente presi posto su un aereo militare diretto a Fort Flatèrs,
in pieno Deserto e atterrammo durante una bufera di sabbia che riduceva
notevolmente la visibilità. Toccata terra, alcuni indigeni sbucati
da non so dove, avvicinarono una scala alla porta dell'aereo che appena
si aprì, lasciò entrare un'ondata di aria infuocata mista
a sabbia. Attorno non vi erano abitazioni, solo una vecchia baracca in
lamiera, unica costruzione dell'aeroporto.
Tra una diecina di militari che ritornavano dai permessi ero il solo civile
a scendere. Un camioncino militare ci aspettava per portarci ad Amguìd,
dove arrivammo sei ore dopo. Lì era accampata la compagnia del
genio con il compito di mantenere praticabili la pista che collega Fort
Flattèers a Fort Polignàc. Per tale lavoro erano impiegati
un centinaio di indigeni come semplici manovali ed una trentina di autisti
tra civili e militari, mentre altri militari dirigevano i lavori.
Gli autisti avevano il compito di condurre gli indigeni dal campo al lavoro
e viceversa, assicurare i rifornimenti d’acqua con cisterne che
andavano a prendere a centinaia di chilometri.
Per due mesi lavorai al campo, poi mi distaccarono con un gruppetto di
sette militari più un sergente e venti indigeni, in un punto a
nostra scelta tra Amguìd e Fort Flattèrs.
Partimmo con un camion e una jeep di mattina presto e verso le dieci ci
fermammo in un punto dove il terreno, piatto e sabbioso era idoneo per
installarvi il nostro piccolo campo e montare le tende ai bordi della
pista in pieno sole e vento. Per procurarci l'acqua ci recavamo fino a
Fort Flatters con una piccola cisterna, mentre i viveri ce li portavano
con un camion una volta la settimana. Non avevamo il gruppo elettrogeno
perciò, neanche un frigo. Eravamo dunque costretti a mangiare in
fretta gli alimenti deperibili appena ce li portavano e tirare la cinghia
in seguito. Se una tempesta di sabbia impediva l'atterraggio del piccolo
aereo ad Amguìd, il camion dei rifornimenti non arrivava, e ci
si doveva arrangiare allora coi legumi secchi di riserva o con la caccia,
catturando nei paraggi una gazzella o un muflone; anche se questi erano
rari, o magari qualche coniglio selvatico.
Col mio camion dovevo provvedere ai collegamenti con Fort Flattèrs
e Amguìd, portare gli indigeni al lavoro sulla pista e riportarli
al campo. Non era un lavoro difficile, la cosa più fastidiosa era
dover sopportare il caldo che sotto le tende raggiungeva temperature da
sauna.
Partivo al mattino presto col camion carico di indigeni nel cassone e
due militari nella cabina e li portavo al lavoro, a volte tornavo subito
al campo per ripartire col sergente a controllare lo stato della pista
o per qualche collegamento in altri posti. Quando il tempo me lo consentiva,
rimanevo sulla pista ad aiutare i militari nel dirigere i lavori che consistevano
nel ricolmare di terra o di sassi i buchi più grossi sulla pista
e appianare le ondulazioni create dal passaggio dei veicoli; o a togliere
la sabbia che il vento vi ci aveva ammucchiato sopra.
Gli indigeni, in parte Berberi e in parte Tuareg lavoravano per quattrocento
franchi al giorno oltre al "Canùn", cioè il pacco
mensile di viveri consistente in una quantità calcolata di pasta,
olio non raffinato, zucchero, tè, caffè, pomodoro concentrato
e farina di semola per il cùs-cùs.
Essi accettavano di lavorare con noi per periodi che difficilmente oltrepassavano
i sei mesi, poi se ne andavano e con i risparmi guadagnati che gli servivano
spesso per comprarsi una moglie, invece di scambiarla con un cammello,
qualche pecora o un somarello che quasi tutti possedevano. Ma privarsi
di un animale era un sacrificio che non tutti erano disposti a fare, anche
se, soprattutto per i Tuareg che sono una razza molto orgogliosa, lavorare
significava, sia fatica, che umiliante accettazione della prepotenza dei”
Rumì ": nome col quale usavano chiamare i padroni europei
che li tiranneggiavano e li trattavano come schiavi.
Si deve anche dire che farli lavorare non era cosa facile, erano troppo
abituati ad una vita libera e indipendente. Per farli adattare alla assiduità
del lavoro era necessaria una continua sorveglianza perché erano
capaci di fare una gran sfuriata lavorativa per poi sedersi per un tempo
indeterminato e brontolare quando gli si diceva di riprendere, per poi
rimettersi a sedere appena si sentivano inosservati. Dovevano perciò
essere sottoposti ad una continua sorveglianza e ad una certa severità,
perché se prendevano troppa confidenza o si accorgevano che la
sorveglianza non era severa, ne approfittavano e imponevano i loro frequenti
riposi con arroganza.
Certo che anche le paghe erano conseguenti e avrebbero fatto passare la
voglia di eseguire un lavoro più serio, certo che, se anche avessero
preso il doppio, avrebbero lavorato tre mesi anziché sei, perché
soddisfatto il desiderio ricavato da quel po’ di soldi, non avevano
altre ambizioni che richiedessero denaro.
Bisognava dunque trattarli un po’ come dei bambini, con la differenza
che, se non li si costringeva con una certa autorità a fare i compiti,
gli si insegnava a sottoporsi alla sferzante monotonia del lavoro continuativo,
e in questo non tutti ci sapevano fare. Qualcuno ci riusciva solo con
una certa serietà, altri invece li prendevano di petto, con le
minacce e le percosse. Per evitare certi rischi si nominava tra loro un
capo squadra tra i più autorevoli, ma anche questo metodo non era
semplice perché se si eleggeva un capo squadra Berbero i Tuareg
ne facevano una questione d'onore e gli disubbidivano. Altrettanto avveniva
se il capo squadra era un Tuareg. Fortunatamente i nostri indigeni erano
divisi quasi in parità tra Berberi e Tuareg, allora era necessario
nominare un capo squadra per ognuna delle tribù.
Ogni sera dopo cena gli indigeni tiravano fuori i loro tamtam e seduti
in cerchio attorno al fuoco, che era servito anche per cuocere il cibo,
cominciavano a cantare e a ballare fino a tarda ora. In previsione di
questo che si era presa la precauzione di fare montare le loro tende ad
una certa distanza dalle nostre. Malgrado tutto quel putiferio ci impediva
di dormire fino a tarda notte e spesso il sergente era costretto ad ammonirli
perché loro non sarebbero mai andati a coricarsi e al mattino non
si sarebbero mai voluti alzare. Il sergente andava su tutte le furie perché
sul lavoro parevano tutti moribondi, ma appena calava la sera diventavano
dei diavoli scatenati. Ma da parte nostra non si poteva pretendere di
cambiare una cultura millenaria in breve tempo, anche se, spesso dovevamo
trattenere il sergente che avrebbe voluto irrompere tra loro con un grosso
bastone.
Se nei
primi tempi dovevo trasportare gli indigeni al lavoro, in seguito i militari
me ne affidarono la direzione. Questo incarico non mi dispiaceva, tanto
più che la rudezza usata dai militari verso gli indigeni mi urtava.
Io li trattavo senza troppa famigliarità, ma umanamente, non come
degli inferiori ma come delle persone uguali a me. Loro ricambiavano il
rispetto che avevo apprezzandomi e lavorando con più lena. Anche
il mio sistema di lavoro era nuovo e su misura per loro e lo accettavano
quasi come un gioco, un gioco che facevano senza che si rendesse necessaria
la sorveglianza continua. Li dividevo in due squadre lasciandone una in
un dato punto della pista, poi percorrendo un certo tratto, lasciavo un
segnale in mezzo alla pista. Percorrevo poi un'altro tratto uguale e depositavo
il secondo gruppo di operai dicendo loro che quello di aggiustare la pista
fino al segnale era il loro lavoro per quella mezza giornata. Prima arrivavano
al segnale che avevo posto, prima avrebbero terminato il lavoro e si potevano
riposare. I due gruppi generalmente si dividevano tra Berberi e Tuareg,
è inutile dire con quanta foga si mettevano al lavoro incitandosi
a vicenda per arrivare primi al traguardo, sia per riposarsi che per rivalità.
Il sergente rimaneva stupito nel vedere che, senza cattiveria svolgevano
molto più lavoro che con i loro metodi.
Il più anziano tra loro lo chiamavano "Scilvanì",
e proprio lui non faceva che ripetere agl'altri"Mlèha Blacasa,
Blacasa”. Così mi chiamavano non riuscendo a pronunciare
il mio cognome. Mlèha significa bravo. Essi infatti erano sorpresi
di trovare un "Rumì" che li trattava umanamente ed avevano
incaricato il vecchio Scilvanì di chiedermi se ero francese. Gli
risposi che ero italiano, e lui, voltandosi verso i compagni disse: "Blacasa
taliano, mlèha taliano", e tutti insieme si allontanarono
vociferando tra loro e continuando a ripetere: " Taliano, mlèha
taliano”. Certo nessuno sapeva dove fosse l'Italia, ma per loro
non ero francese, e quello era il motivo per cui ero diverso dai militari.
Gli indigeni avevano una cucina propria, anche perché per motivi
religiosi non potevano mangiare come noi. Infatti tutte le carni che mangiavano
dovevano appartenere ad animali sgozzati rivolti verso est, cioè
verso la Mecca.
La nostra cucina in ogni caso non gli sarebbe stata gradita perché
oltre a non essere conforme alla loro, mancava dell'enorme quantità
di spezie a loro tanto gradita.
Quando mangiavano si mettevano tutti seduti con le gambe incrociate facendo
un cerchio attorno ad un'unico piatto che quando conteneva dei cibi solidi
come il cùs-cùs, tutti si servivano con le mani che inzuppavano
nello stesso piatto in buon accordo.
Col nostro cuoco militare vi erano in permanenza tre sguatteri indigeni,
un vecchio e due ragazzini sui tredici anni, i quali servivano spesso
da agenti di collegamento ai loro connazionali per trasmettermi sottovoce
l'invito al loro campo. Mi faceva piacere godere della loro simpatia,
ma per quanto mi fossi abituato al loro modo di vita non riuscivo a condividere
la totale mancanza di igiene alla quale invece erano abituati loro. Qualche
volta accettavo l'invito e quando mi vedevano arrivare tra loro, mi accoglievano
con parole di simpatia che non capivo sempre, ma che intuivo dai loro
sorrisi e dal loro indaffararsi per lasciarmi il posto d'onore al fianco
dei più vecchi nel cerchio attorno al fuoco sul quale già
bolliva l'acqua per il tè.
Seduti a terra con le gambe incrociate, ognuno tirava fuori tutto il francese
che conosceva per intrattenermi, mentre Scilvanì, sempre seduto
al mio fianco, cominciava a spezzettare con un sasso un grosso pezzo di
zucchero dalla forma di un proiettile per metterne qualche pezzetto nella
teiera piena di acqua bollente. Giunti a questo punto, il mio sguardo
scorreva fatalmente verso i bicchierini di vetro posati sulla sabbia ai
piedi del vecchio, ed erano sempre molto sporchi. Per mia fortuna prima
di bere Scilvanì versava e riversava il tè più volte
dalla teiera ai bicchierini e da questi nuovamente alla teiera, il ché
mi faceva sperare che il tutto fosse più igienico.
Terminata l'operazione del travasamento, Scilvanì mi tendeva uno
dei bicchierini riempiti, talvolta dopo essersi soffiato il naso premendo
le narici con l'indice e il pollice ed essersi poi pulito le dita nei
larghi pantaloni per dare più importanza all'offerta.
Devo dire che a parte questi particolari il loro tè, come del resto
il loro caffè era buonissimo.
Tra loro vedevo e imparavo sempre qualcosa di nuovo sui loro costumi,
sul modo di vivere. In particolare mi incuriosiva il loro modo di cucinare,
soprattutto come cuocevano il pane in un buco scavato nella sabbia sopra
delle braci ricoperte a loro volta da uno strato di sabbia e di piccoli
sassi piatti, dove depositavano una specie di pizza che ricoprivano con
gli stessi sassi piatti e sabbia e su cui deponevano altre braci. In un
attimo quella specie di pizza era già cotta, la tiravano fuori
e la sbattevano, ma vi restava sempre attaccata una certa quantità
di sabbia che a loro, apparentemente non dava fastidio.
I pasti erano generalmente costituiti da un piatto unico che chiamavano
la "Scerbà". Era composto da un brodo rosso molto piccante
con dentro della pasta e del pane spezzettato. Subito dopo mangiavano
qualche dattero seguito dall'immancabile tè o caffè. Il
cùs-cùs era il loro piatto preferito, per quella povera
gente un piatto pregiato che non potevano permettersi tutti i giorni.
Carne ne mangiavano solo quando i militari gli davano la possibilità
di sgozzare un animale catturato ancora vivo durante una caccia. Ciò
avveniva raramente, più spesso riuscivano a catturare un coniglio
selvatico con le loro trappole.
Anche i polli erano un lusso che si potevano permettere solo in occasione
di una festa. Quando ne avevano uno lo cucinavano in un modo per noi strano
ma veramente squisito. Prima lo sgozzavano rivolti verso est, lasciando
ben colare il sangue, poi lo avvolgevano così com'era in un fango
d'argilla fino a farne una palla che facevano cuocere sulle braci. A cottura
finita toglievano la palla dalle brace e la rompevano, i cocci d'argilla
si separavano dal pollo trattenendo gran parte delle penne. Così
terminavano di pulirlo dentro e fuori, poi veniva finito di cuocere a
spezzatino con qualche legume in un sughetto rosso e piccante veramente
appetitoso. Nel loro menu non disdegnavano neanche un bel lucertolone
quando riuscivano a catturarne, o le grosse cavallette che arrivavano
in folti nuvoli come una manna dal cielo, che raccoglievano e mettevano
dentro a dei sacchetti in attesa che morissero. Poi le stendevano al sole
per farle seccare per poi mangiarle come croccantini durante le ore intermedie
tra i pasti. In cambio si allontanavano disgustati se gli capitava di
vederci mangiare aragoste o gamberoni. Bèh, ad ognuno i propri
gusti e le proprie tradizioni.
Quando il sergente era ubriaco, e lo era spesso, amava interferire nelle
loro tradizioni, un po’ perché li disprezzava, un po’
per divertimento. Una sera durante una delle interminabili danze accompagnate
dai soliti tamtam, un giovane tra loro cadde a terra con una forte crisi
epilettica, un male molto diffuso tra loro; il sergente assicurò
loro di sapere come curare il giovane. Lo fece trasportare sotto la tenda
nella nostra cucina e lo costrinse ad ingurgitare mezzo litro di vino
bollito che lo fece vomitare ripetutamente. I suoi compagni rimasti fuori
dalla tenda, intuirono il brutto tiro che gli aveva giocato il sergente
e per poco non successe una rivolta. Riuscimmo a calmarli con fatica e
da quel giorno preferirono curarsi con i loro metodi che consistevano
nel tenere ben fermo l'epilettico, mentre qualcuno gli gettava del pepe
negl'occhi per scacciare secondo una loro credenza i cattivi demoni.
I Tuareg si distinguevano dalle altre tribù non solo per il diverso
modo di vestire, ma anche fisicamente poiché erano in genere più
alti. Sono una razza fiera ed orgogliosa, meno socievole delle altre.
Ma chi riesce a farsela amica può contare sulla sua lealtà.
Furono anche gli ultimi ed i più difficili da sottoporre al dominio
dei francesi quando conquistarono il Sahara.
Certuni erano vestiti di blu scuro da capo a piedi, con la testa avvolta
nei turbanti con i quali coprivano anche il viso lasciando apparire soltanto
gli occhi. I piedi calzati da larghissimi sandali fatti per camminare
più facilmente sulla sabbia, sembravano usciti da un libro di Salgari.
Il capo dei nostri Tuareg era il più gigante di tutti, ma non parlava
una parola di francese. Una volta, con l'aiuto di Scilvanì che
qualche parola di francese la sapeva pronunciare e che mi faceva da interprete,
chiesi al gigante Tuareg perché tra loro solo gli uomini portavano
il velo sul viso e non le donne. Per quanto ne capì, rispose che
un tempo molto lontano la loro terra era stata invasa dagl'arabi, gli
uomini combatterono per scacciarli senza riuscirvi. Furono allora le donne
a ribellarsi agli invasori e a scacciarli. Da quel momento gli uomini
si velarono il volto mentre le donne acquisirono gran parte dei diritti
maschili, come il governare una famiglia o fare certi lavori che in altri
posti spettano solo agli uomini, del tipo portare a termine un contratto
commerciale o costruire una casa.
Da un po' di tempo gli indigeni si erano messi a bisticciare ogni mattina
prima di partire col camion per conquistarsi per primi il posto con me
in cabina. Riuscii a calmarli solo quando dissi loro che solo Scilvanì,
essendo il più vecchio sarebbe salito in cabina per tutta la stagione,
mentre gli altri dovevano salire dietro nel cassone. Arrivati sul posto
di lavoro, grazie al mio sistema non avevano più bisogno di una
continua sorveglianza. Distribuivo ad ogni squadra i compiti da svolgere
per la mattinata e ripartivo con Scilvanì a qualche chilometro
dalla pista per visitare le trappole che l’anziano aveva deposto
la sera precedente lungo un vecchio fiume disseccato. Quasi sempre, in
una delle otto trappole nascoste vi trovavamo una o più prede che
dividevamo in buon accordo. Quelle già morte erano per me e i militari,
quelle ancora vive le sgozzava il vecchio e le portava ai suoi compagni.
Era molto abile Scilvanì nel deporre le trappole, prima osservava
sulla sabbia tra i cespugli dove le tracce erano più numerose e
fresche, poi deponeva le trappole nei passaggi obbligati. Prima ancora
di deporle le innescava con un dattero e le ricopriva con un leggero strato
di escrementi di cammello che polverizzava con le dita, poi copriva il
tutto con un leggero velo di sabbia, cancellava tutte le nostre tracce
attorno e partivamo. Una volta trovammo in una trappola solo una zampa
di un animale, Scilvanì mi assicurò che si trattava di un
lince che durante la notte si era staccata la zampa a colpi di morsi per
fuggire.
Eravamo
senza carne ormai da una settimana perché l'aereo non aveva potuto
posarsi sulla piccola pista di Amgid a causa di una tempesta di sabbia.
Partimmo per la caccia io, il sergente, Scilvanì e un'altro indigeno
dopo aver lasciato gli altri operai al lavoro sulla pista sorvegliati
da un militare.
Ci dirigemmo a caso verso est a tutto terreno scrutando in lontananza
tra i ciuffi d'Alfa e le dune di sabbia se vi era qualche branco di gazzelle.
Guidavo attento a non incappare nei banchi di sabbia molle dov'era facilissimo
piantarsi. Facevo attenzione anche ai numerosi buchi, ai fossi o ai fiumi
disseccati che arrivavano sotto le ruote all'improvviso, chiedendomi in
qual modo avrei potuto seguire in corsa delle gazzelle in un simile terreno.
Dopo mezz'ora di strada, Scilvanì, da dietro il cassone picchiò
sulla cabina indicandoci un punto lontano all'orizzonte. C’erano
infatti in quella direzione una diecina di animali che fuggivano rapidamente
in gruppo, mentre due di loro, stranamente restavano fermi ad aspettarci.
“Ci siamo”, disse il sergente,”alè, datti da
fare!". Puntammo dritti sui due animali che coraggiosamente continuavano
ad aspettarci per fare da esca e permettere alle loro femmine di porsi
in salvo.
Con l'acceleratore a fondo ci avvicinavamo agli animali che malgrado il
fracasso di ferraglia del camion messo a dura prova, continuavano ad aspettarci
quasi a volerci sfidare. Solo quando fummo a poche diecine di metri di
distanza, cominciarono a fare alcuni sbalzi per poi fermarsi ancora più
in là, poi partirono a tutta velocità in una direzione diversa
da quella presa delle femmine.
Riuscivo nelle zone più accessibili a starci dietro sui sessanta
orari e per alcuni momenti avevo la gazzella a due o tre metri dal paraurti.
Allora pestavo il freno ad aria che dalla valvola di sfiato emetteva un
sibilo che spaventava ancor più l’animale costringendolo
ad uno sforzo maggiore per aumentare ancora la velocità. I fossi,
i canali e le rocce nascoste dall'Alfa, sbucavano improvvisamente obbligandomi
a virate o frenate secche, che permettevano alla gazzella di distanziarci
per lnghi tratti. Mentre manovravo senza sosta il freno, il volante, il
cambio, la frizione in uno sconquassamento preoccupante di tutto il camion
e dei suoi occupanti, il sergente mi disse di portarmi più sulla
sinistra dell’animale per spingerlo su un terreno migliore e inseguirlo
con maggiore facilità.
Per arrivare sul terreno migliore dovevo attraversare una striscia di
terreno dove i fossi erano più profondi del solito ed ero costretto
a frenare seccatamente per evitare il peggio. Nel frattempo l'animale
ne approfittò per distanziarci. Tutti mi incitavano a riacchiapparlo,
io mi chiedevo per quanto tempo ancora il camion restava intero e se valeva
la pena di rischiare tanto per una gazzella. Erano tutti così eccitati
che fui costretto a mettercela tutta rullando ad una velocità che
non aveva niente a che vedere con il buon senso. In un salto più
grande dei soliti, intravidi nel polverone formatosi in cabina, un miscuglio
di testa, braccia e gambe del sergente che, perso il punto d'appoggio
era sbatacchiato in tutti i sensi. Chissà se gli indigeni erano
ancora nel cassone. Mi aspettavo dei lamenti da parte del sergente, ma
appena riassestato sul sedile mi fece segno di accelerare. Io, che mi
ero aggrappato al volante,ripresi la corsa folle anche se la gazzella
era fuori vista.
Quando finalmente arrivammo sul terreno buono ricomparve l'animale a poca
distanza, ormai aveva rallentato il passo e la seguivo con facilità
a pochi metri. Alcuni momenti pareva si volesse fermare, rallentava scuotendo
nervosamente la coda e guardandosi indietro e attorno alla ricerca di
una inutile via di scampo. Sentiva di non farcela più e di essere
caduta in una trappola. La sua velocità non oltrepassava i trenta
chilometri e ormai non poteva più scapparci. Anche se vi fosse
riuscita, ero convinto che per lo stress sarebbe ormai morta ugualmente.
Riprovavo a pompare sul freno per spaventarla ma non reagiva che debolmente.
Respirava con la bocca spalancata e cercava in ogni asperità un
rifugio. Sfinita si fermava a guardarci come ad implorare una tregua.
Mi avvicinai all'animale fino a toccarlo con il paraurti continuando a
far sibilare lo sfiato del freno per spaventarlo. Fece ancora un centinaio
di metri al piccolo trotto poi cadde sulle ginocchia anteriori. Tutti
urlavano di gioia, io invece, avrei volentieri rinunciato a mangiare carne
per non uccidere in quel modo.
Mi fermai a dieci metri dall'animale inginocchiato e tutto tremante, ansante
con la lingua pendente guardava impotente Scilvanì che gli si avvicinava
col coltello in mano, senza poter fuggire. Solo mentre stava per acchiapparla,
con un ultimo disperato sforzo si rialzò ancora tutta fremente
per percorrere ancora qualche diecina di metri inseguita dal vecchio,
per cadere di nuovo. Questa volta Scilvanì riuscì ad agguantarla
ben saldamente e in un attimo gli tagliò la gola.
Erano intanto trascorse diverse ore dalla nostra partenza ed era tempo
di ritornare. Quella corsa cieca ci aveva allontanati di parecchi chilometri
dalla pista e ora occorrevano almeno due ore per raggiungerla. Nel frattempo
si era alzato un venticello che dapprima sollevava la sabbia solo a tratti
qua e là, ora invece alzava tutt’intorno una fitta coltre
di sabbia. Il passaggio che ci serviva per orientarci era completamente
scomparso, solo i monticelli più vicini erano ancora visibili,
ma non avevano niente di caratteristico che ci permettesse di distinguerli
e di orientarci.
Chiesi al sergente se la direzione presa era quella buona. Mi rispose
di sì, anche se, secondo lui, avrei dovuto dirigermi un po’
più a destra. Seguii le indicazioni, ma dopo due ore non si vedeva
ancora la pista. Credevo di dirigermi in quel senso, ma come facevo ad
esserne certo con una visibilità ridottissima e con tutte le giravolte
che mi toccava fare per contornare i punti impraticabili. La gioia per
il buon esito della caccia era svanito, eravamo tutti preoccupati di ritrovare
la pista e scrutavamo il terreno davanti a noi, tesi senza parlare e avanzando
ancora per circa un'ora.
Certo ne avevamo fatta di strada per trovare la selvaggina, poi per inseguirla
avevamo percorso diversi chilometri in tutti i sensi senza badare troppo
ai punti di riferimento, preoccupati solo a non perdere di vista l’animale.
Ci vollero tre ore per il ritorno, e avremmo dovuto rientrare molto tempo
prima sulla pista.
"Temo proprio che la direzione che abbiamo preso non sia quella buona,
fermiamoci e domandiamo agli indigeni nel cassone cosa ne pensano. Quei
diavoli non si perdono mai", disse il sergente. Ma il vecchio Scilvanì,
sentendo che ci eravamo persi, apparve impaurito. Come tutti gli indigeni
egli considerava l'europeo un essere superiore che conosce sempre quello
che fa. Erano abituati ad ubbidire ciecamente senza cercare di capire,
ora invece quel "maestro” incontrastato si rivolgeva a lui,
l'umile Scilvanì, per chiedergli consiglio, per questo era più
preoccupato di noi.
Con aria titubante ci indicò vagamente una direzione diversa, ma
senza convinzione. Poco rassicurati ci aviammo attraversando zone di sabbia
molle, dove un semplice errore di cambio o di valutazione della velocità
con cui attraversarle, avrebbe avuto come conseguenza l'insabbiamento
del camion. Quando ciò avveniva non si sapeva mai se per uscirne
ci si impiegava pochi minuti o dei giorni, anche ammettendo di avere una
scorta d'acqua sufficiente per compensare gli sforzi fisici necessari
per spalare di continuo la sabbia davanti alle ruote.
A complicare le cose si aggiungeva il fatto che da alcuni giorni la batteria
del camion rimaneva completamente scarica, e al mattino per metterlo in
marcia dovevamo trainarlo col la jeep. Sicuramente fu un’ imprudenza
avventurarci in tutto terreno in quelle condizioni, ma il sergente, aveva
insistito per farmi partire ugualmente. Ecco perché, quando sentivo
in certe zone sabbiose affondare le ruote come invischiate nella pece,
sentivo tutta la responsabilità e la serietà della situazione,
e in quei momenti, dipendeva solo dalla rapidità nel retrocedere
le marce o dai miei riflessi nel saper scegliere all'ultimo istante un
passaggio anziché un'altro.
Arrivammo così presso una sorgente di acqua calda non potabile.
Fermai il camion su una piccola piattaforma dove il terreno mi pareva
più solido e ci recammo al piccolo stagno per sciacquarci un po’
la faccia e scrollarci di dosso la polvere. Mentre si rifletteva sul da
farsi, sentimmo il motore tentennare per poi fermarsi. Non capivo come
aveva potuto succedere, forse avevo regolato il minimo troppo basso per
potere cambiare le marce più rapidamente. Per qualche istante nessuno
reagì, restammo lì come paralizzati a guardare il camion
allarmati per la nuova situazione che ci si presentava.
L'arresto del motore era avvenuto troppo rapidamente per permettermi di
precipitarmi alla guida, così non ci restava che tentare di farlo
ripartire spingendolo. Mentre ripresi il posto al volante mi accorsi che
il terreno sul quale mi ero fermato non era poi così duro come
credevo, infatti, al passaggio delle ruote, la sottile crosta in superficie
si ruppe scoprendo la sabbia molle nella quale affondavano leggermente
le gomme. Provarono a spingere, ma in tre riuscivano appena a smuovere
il veicolo troppo lentamente per sperare che il motore ripartisse. Si
provò ancora e ancora, malgrado le urla del sergente che in tutti
i modi cercava di stimolare gli indigeni a mettercela tutta, riuscivano
con fatica a smuovere il camion.
Dopo un'ultimo
tentativo fatto senza troppa convinzione, gli indigeni si lasciarono cadere
esausti a terra mentre il sergente mi disse con aria costernata: "E
adesso che facciamo?". Se non trovavamo il modo di ripartire la situazione
diventava seria, e nessuno sapeva dove eravamo per venire in nostro soccorso.
Eravamo lontanissimi dalla nostra base e non sapevamo in quale direzione
fosse. Se almeno fossimo riusciti a fare funzionare il motore!. Eppure
con una spinta un po’ più forte, anche solo di un metro,
sentivo che avrei potuto rimetterlo in funzione. Finché il motore
era ancora caldo, già in quelle deboli spinte sentivo che stava
quasi per riprendere. "Non ce la facciamo a spingere più forte,
non riusciamo quasi più neanche a smuoverlo, e più avanziamo,
più il terreno si fa molle, siamo proprio in un grosso guaio”
continuò il sott'ufficiale.
Avevo sentito spesso parlare dell'effetto che il perdersi nel Deserto
suscita in poche ore in una persona. L'impressionante silenzio nella vastità
del luogo, dà un profondo senso di solitudine, e il sapersi sperduto
in balìa della immensità di cui si è circondati,
provoca un'angoscia indescrivibile che colpisce gli individui nel fisico
e nella mente.
Si finisce per perdere la calma e a volte la ragione, commettendo le azioni
più assurde, come quella di incamminarsi a piedi verso una meta
qualsiasi. Oppure si passa alternativamente da un mutismo assoluto per
scoppiare improvvisamente in una crisi isterica. Bastano poche ore di
un simile stato mentale per provocare una precoce crescita della barba
o la decolorazione dei capelli.
Questo ovviamente non era ancora il nostro caso, ma eravamo tutti molto
giù di corda. I volti erano tirati, gli occhi dilatati, su ogni
faccia vi era stampata l'impotente desolazione e l'angoscia. Nessuno parlava
più o sapeva cosa fare, inoltre vi era quel vento carico di sabbia
che levigava la faccia e non ci permetteva di orientarci, non ci restava
che un'ultima possibilità...."Sergente” dissi, “facciamo
ancora un tentativo, io alzo con il cric le ruote davanti e vi mettemmo
sotto dell'erba, poi facciamo lo stesso con quelle dietro affinché
le ruote riposino sul pari e sul duro. In seguito, scaviamo davanti ad
ogni ruota un solco in pendenza lungo almeno un metro e mezzo, lungo il
quale mettiamo ancora dell'erba per non affondare nella sabbia. Infine
proveremo con una buona spinta, che ne dice?” L’idea gli parve
buona."Alèh, voi altri”disse girandosi verso gli indigeni
ancora seduti dietro il camion. “ Prendete gli arnesi in mano e
cominciate a scavare davanti alle ruote quattro solchi in discesa".
Con rinnovata speranza ci mettemmo al lavoro e mentre loro scavavano,
io facevo spurgare l'aria nelle tubazioni del combustibile. Il motore
era ancora tiepido e con un po’ di fortuna avremmo potuto farcela.
Quel filo di speranza fu sufficiente a far tornare sui visi un po’
di vita.
Mi misi al volante con le mani sudate per l'emozione, se il motore avesse
rifiutato di partire saremmo rimasti inesorabilmente piantati dentro a
quei fossi.
"Pronti? Alèh! Viaaa!". Da dietro spinsero con tutte
le forze. Arrivato in fondo ai solchi il camion andò a sbattere
contro la fine di questi, e il motore aveva ripreso a fare le fusa tranquillo.
Nessuna musica sarebbe stata più gradita, rimasi ad ascoltarla
per un po’ appoggiato immobile sul volante, senza dire nulla. Del
resto i discorsi più belli li faceva il ronzio del motore che tutti
ascoltavamo in silenzio. Poi, guardando dal finestrino vidi i tre accasciati
a terra immobili. Scilvanì fu il primo a esplodere, non capivo
cosa diceva ma parlava, parlava mentre si rialzavano sorridenti.
Ripartimmo e un'ora dopo ci trovammo davanti ad un monticello alto una
ventina di metri e dalla forma caratteristica di un fungo gigante. Era
impossibile sbagliarci, ci trovavamo nuovamente nel punto in cui avevamo
ucciso la gazzella.
Cominciava a calare la sera, il vento si era un po’ calmato ma la
visibilità restava precaria a causa dell'oscurità. Ripartimmo
nella direzione indicata dal sergente. Il combustibile diminuiva in modo
allarmante. Anche gli indigeni erano stati fatti salire nella cabina sebbene
fossimo piuttosto stretti. Nessuno aveva voglia di parlare, i miei compagni
di viaggio si lasciavano sballottare silenziosi dalle mie manovre improvvise
e nervose per evitare gli ostacoli e dai sussulti del mezzo, tutti con
gli occhi fissi davanti al muso del camion per cercare di distinguere
alla luce dei fari la pista.
Il vento era completamente cessato ma non era cessato per questo il pericolo
di affondare nella sabbia. Non sapevo in quale direzione stavamo andando
e credo che nessuno lo sapesse. Non ero neanche sicuro di andare dritto
perché spesso ero costretto a contornare degli ostacoli in semicerchio
o delle dune di sabbia per diverse centinaia di metri. Quando riprendevo
la direzione voluta non ero certo che fosse quella di prima, ma ormai
non ci restava che proseguire finche avevamo del combustibile. Era inutile
chiedere consigli, non avrei fatto altro che metterli in maggior imbarazzo.
Dopo circa tre ore di incertezza, scorgemmo finalmente davanti a noi una
striscia di terra battuta. “Eccola!" gridai. Salii sulla pista
e mi fermai, scendemmo tutti a terra quasi a volerla toccare con mano.
Il morale era riapparso assieme ai sorrisi. Eravamo ad una quarantina
di chilometri dal campo, dove, al nostro arrivo trovammo tutti gli altri
ad aspettarci preoccupati. Gli indigeni rimasti sulla pista a lavorare
erano stati trasportati al campo con la jeep, anche se per portarli al
campo aveva dovuto fare diversi viaggi. Vedendoci arrivare ci fecero tutti
una gran festa.
Erano
ormai trascorsi tre mesi dal mio arrivo al campo sulla pista e un po’
alla volta avevo finito per assumere la completa direzione dei lavori
col compiacimento degli indigeni e del sergente che si limitava a controllare
di quando in quando i lavori effettuati; trascorrendo la maggior parte
del tempo a Fort Flattèrs da dove ritornava spesso ubriaco.
Gli indigeni mi avevano accettato come uno di loro e mi ubbidivano senza
fatica. Da parte mia cercavo di essere soprattutto giusto evitando di
assomigliare ai militari che li consideravano poco più che animali
e li disprezzavano per la loro ignoranza, per la povertà e per
i diversi costumi ritenuti "barbari". Cercavo invece di capirli
e mi dicevo che malgrado la loro grande povertà vivevano meno spensierati
di noi, dedicando gran parte della loro esistenza al gioco, alle danze.
Senza la costrizione del lavoro costante al pendolarismo e agli orari
fissi. Eravamo noi piuttosto ad invogliarli a desiderare cose superflue,
imponendo loro la nostra "civiltà" e condizionando il
loro modo di vita. E' vero il fatto che erano quasi tutti analfabeti,
senza un nome distinto, che non conoscevano nemmeno la loro età,
ma è certo che il valore umano di molti di loro era ben più
elevato di quello di certi europei con tanto di laurea.
Ogni tre
mesi di lavoro nel Sahara si aveva diritto ad un mese di riposo pagato
nel nord. Perciò trascorsi il mio primo mese di riposo ad Algeri,
mentre continuavo a percepire la paga regolare comunque. L'hotel in cui
mi installai era situato ai bordi di una spiaggia e le ferie furono incantevoli,
tanto più che con una certa disponibilità di denaro non
mancavano strabilianti avventure amorose che non avevo mai potuto permettermi
in passato, con belle moresche ed europee.
Ripresi il mio posto al lavoro proprio quando si trattava di condurre
gli operai indigeni alla loro oasi nativa per gli otto giorni di riposo
che gli spettavano da contratto.
Dopo aver percepito un acconto sulla paga salirono tutti sul mio camion
e partimmo preceduti dalla jeep con il sergente e un militare a bordo.
Arrivammo in vista della oasi quando sentii battere dei colpi sulla cabina.
Mi fermai accorgendomi che dietro nel cassone vi erano in atto delle discussioni
animate. Era l'ora della preghiera e dovevamo sostare per pregare e indossare
gli abiti buoni. La discussione era avvenuta per il fatto che tutti pretendevano
di entrare nella cabina con me, per fare un'entrata trionfale nel villaggio.
Solo con l'inizio della preghiera ritornò la calma.
Rivolti verso la Mecca, inginocchiati sulla sabbia a piedi nudi, iniziarono
il rito dopo i preliminari di igiene che consistevano nel lavarsi il corpo
iniziando dalle parti inferiori. Di seguito il resto fino a pulizia completa,
compresi i denti e le parti intime. Naturalmente a causa della scarsità
di acqua, si limitavano a fare solo i gesti prendendo delle manciate di
sabbia al posto dell'acqua che lasciavano colare tra le dita per arrivare
con le mani vuote ad imitare il lavaggio del corpo. Dopo di ché
cominciavano a recitare i versi del Corano baciando ripetutamente il suolo.
All'entrata nell'Oasi una folla rumorosa di marmocchi nudi, di uomini
e donne di ogni età, ci venne incontro festosa. Ci arrestammo tutti
davanti alla dimora del Caìd, costruita con fango paglia e sterco
come le altre ma finita con più cura. Questi ci aspettava davanti
alla soglia per invitarci ad entrare con gli anziani del villaggio.
Il nostro arrivo era atteso e in una stanza era già stato steso
a terra un gran tappeto sul quale ci sedemmo in cerchio, mentre i nostri
operai erano entrati nelle loro baracche. Due servi con la pelle più
scura degl'altri, al servizio del Caìd, (pare che fossero pronipoti
di schiavi, che si erano tramandati la schiavitù da una generazione
all'altra per servire le discendenze dei padroni ) entrarono portando
un vassoio d'acqua con un asciugamano dove ci sciacquammo le mani tra
una chiacchiera e un'altra in un francese ratappezzato per la circostanza
in attesa della cena. Riapparvero i due servi poco dopo con delle uova
sode già sbucciate che deposero davanti ad ognuno di noi sul tappeto
stesso. Ebbi appena il tempo di prendere in mano il mio che una ventina
di capre irruppe nella stanza passando proprio sopra al tappeto, lasciandovi
qualche ricordino sopra, per poi recarsi nella stanza accanto che era
la loro dimora.
Il sole all'esterno stava tramontando rabbuiando ancor più la stanza
in cui eravamo, anche perché non vi erano finestre. Fuori c’era
molta animazione dovuta soprattutto alle notizie apportate dai lavoratori
lontani da diversi mesi.
Uno dei servi portò una grossa scodella che depositò al
centro del cerchio. Era colma di olio tiepido, o grasso fuso di montone,
o cos'altro fosse non lo so. E’ certo che aveva un tremendo sapore
di rancido e dentro vi erano dei pezzettini di grasso di montone serviti
come antipasto. Ci servimmo a turno pucciandovi dentro con le dita, ma
io, malgrado un certo appetito, schiacciai a malavoglia tra i denti quel
pezzetto di grasso. Tantopiù che quando arrivò il mio turno
avevano quasi tutti pescato dentro la scodella. Il cùs-cùs
che ne seguì era un po’ più commestibile, anche se
condito con lo stesso olio e pieno di sabbia. Ci fu servito in un gran
piatto unico per tutti, posto al centro del cerchio che restringemmo per
meglio arrivare al piatto dentro al quale, ognuno fece con le dita, uno
scavo per versarvi dentro un sugo rosso di vari legumi e pezzetti di carne
di montone; con l'aggiunta inoltre di un po’ di harissà,
per dargli quel tanto di piccante desiderato. Il capretto allo spiedo
che ne seguì era invece buonissimo e non mi feci pregare a fargli
onore. Infine ci portarono il caffè nei soliti bicchierini di vetro,
buono come sempre, ma non capii il perché vi fossero dentro delle
arachidi.
Non si creda che io voglia irridere tali usanze, anzi, ci era d'esempio
la loro ospitalità che in genere era contraccambiata col disprezzo
e l'arroganza. Tale ospitalità non combaciava con i nostri gusti
e le nostre abitudini, anche se nella loro povertà ci avevano accolti
al meglio.
Comunque, finita la cena, uscimmo all'aria aperta mentre i tamtam avevano
già iniziato il loro frastuono, accompagnando la danza di alcune
donne anziane, che ballavano insieme allineate fianco a fianco tenendosi
per mano con le braccia incrociate sul petto e saltellando ritmicamente
a piccoli passetti un po’ in avanti un po’ all'indietro, lanciando
di tanto in tanto delle grida stridule.
Ripartimmo al mattino seguente per Amguìd, senza gli indigeni che
avremmo ripreso otto giorni dopo.
Ripreso
il lavoro sulla pista, dopo qualche giorno avvenne tra me e il sergente
una spiacevole lite a causa della quale decisi di licenziarmi e di fare
ritorno ad Algeri per cercarmi un nuovo posto di lavoro, tanto più
che i militari pagavano molto meno della compagnie petrolifere.
La lite scoppiò perché non avevo potuto sopportare che il
sergente picchiasse un indigeno, cosa che amava fare quando era ubriaco
e lo era sempre più spesso. Dapprima volli solo trattenerlo, ma
era così infuriato che, volendo o no mi diede una manata sulla
faccia dicendomi di non immischiarmi. Istintivamente gli risposi con una
spinta che lo fece cadere a terra. Rialzatosi corse nella sua tenda a
prendere la pistola ed cominciò a sparare un po’ ovunque,
soprattutto verso l'accampamento indigeno.
Solo con l'aiuto dei militari riuscimmo a disarmarlo mentre a mia volta
innervosito, gli urlavo che non gli avrei permesso di usare tanta violenza
contro gli indigeni, perché anche loro erano persone come noi.
Non l'avessi mai detto, mi rispose che forse noi italiani eravamo come
loro, non i francesi. Il paragonare gli indigeni a noi era stato veramente
un insulto, non solo per il sergente ma anche per i militari, che, nonostante
ci fosse sempre stato tra noi un ottimo rapporto, quel confronto non lo
sopportarono davvero. Mi guardarono in silenzio e un po’ offesi.
Il fatto era che quando il sergente era normale nei miei confronti era
di una gentilezza estrema, come lo era con i militari del resto. Ma quando
era ubriaco si trasformava completamente. Diveniva rognoso, attaccalite,
offensivo, cattivo e pericoloso, dato che non esitava a prendere in mano
la pistola. Il giorno seguente non si ricordava più niente e tornava
buono e mite. Ma da quel giorno non accettavo più la sua gentilezza
dei momenti di sobrietà, come non accettavo i suoi sbalzi di personalità
e la violenza che riversava su quei poveri cristi. Non me la sentivo neanche
di continuare a mettermeli tutti contro per difendere ciò che credevo
giusto, tanto più che come civile non avevo nessun diritto di impormi
ai militari. Decisi dunque di partire. Quel mattino, mentre stavo facendo
il pieno di gasolio prima della partenza, vidi gli indigeni uscire dalle
loro tende e avvicinarsi in silenzio. Si fecero attorno guardandomi fare
il pieno senza aprire bocca.
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