Capitolo I - I miei Ricordi nella Legione Straniera


Parte II


Attraverso lo spioncino della cella mi sembrava di vedere uno spiraglio di luce del nuovo giorno, mentre Tino continuava a dormire. Io non avevo chiuso occhio ma mi sentivo riposato.
Di lì a poco avrei dovuto dare una risposta. Firmare i cinque anni era un gran rischio ma tornare in Italia significava ricominciare da capo, che fare?
Dei passi nel corridoio si avvicinarono, svegliai Tino mentre una chiave girò rumorosamente nella serratura e dalla porta aperta comparvero due gendarmi. Ci porsero ad ognuno una scodella di liquido nerastro che per loro forse era caffè assieme ad un pezzo di pane.
Eravamo in agosto ma di notte in quelle celle faceva fresco e la sbrodaglia, se non altro ci riscaldava lo stomaco.
Ci portarono nuovamente in un ufficio dove ci chiesero cosa avevamo deciso e la risposta fu affermativa per entrambi, i gendarmi ne parvero lieti.
Ci presentarono alcuni documenti che firmammo senza nemmeno leggerli, tanto al punto in cui eravamo non ci interessava più niente.
Ci rinchiusero nuovamente in cella e verso mezzogiorno ci portarono un piatto di lenticchie con del pane, poi partimmo su di un camion per Chamberì. Là ci fermammo due giorni e dopo aver firmato altri documenti partimmo per Lione.
A Lione ci rinchiusero in una stanzetta con otto letti disposti due a due, dove ci trovammo con altri tre italiani che come noi avevano firmato i cinque anni. Italiano era anche il vecchio legionario che ci sorvegliava e che ci guidava nei vari uffici a firmare i documenti.
Il giorno seguente si aggregarono a noi altri due belga e insieme partimmo per Marsiglia accompagnati dai gendarmi.

Il forte San Nicolà di Marsiglia era il principale centro di reclutamento e smistamento della Legione Straniera.
Entrati in quel forte i pesanti portoni d'ingresso si rinchiusero come tentacoli di una piovra sulla preda.
Di lì non si usciva più se non si era ritenuti fisicamente inabili. Era lì che si passavano tutte la visite mediche, e in quel luogo ero finito dopo tanto girovagare, in un ammassamento di gente di ogni nazionalità, tra disperati di ogni età, di ogni rango sociale ma in prevalenza quello più basso.
Gente delusa dalla vita, ubriaconi o ricercati dalla polizia, ragazzi in cerca di avventura, falliti, fannulloni, o come me affamati in cerca di un piatto sicuro di minestra, disposti a giocarsi la vita a testa o croce pur di dimenticare il passato. Gente a cui è concessa come ultima cosa la facoltà di scegliersi un nome e una nazionalità per nascondersi dal passato.
Gente raccolta con astuzia in ogni punto della Francia e qui radunata per farne carne da macello in tempo di guerra; lavoratori di forza in tempo di pace, gente che per debolezza o sfortuna si sono lasciati sopraffare dalla vita e in un ultimo sussulto di speranza accettano di giocarsi la vita ad macabro testa o croce al profitto di una Nazione che specula sulla loro degradazione sociale per acquisirsi su di loro il diritto di vita o di morte.

Eravamo a migliaia nel forte. Il terrazzone a strapiombo sul mare brulicava di desperados in attesa delle visite mediche. I vari gruppetti si formavano per nazionalità, gruppi di italiani, belga, spagnoli, iugoslavi, in ognuno si parlava una lingua e raramente si confondevano tra loro. In uno si discuteva, nell'altro si giocavano gli ultimi soldi o le ultime sigarette. Qualcuno anche i vestiti se sapeva di essere stato fatto abile e che gli sarebbe stata consegnata una divisa militare. Altri invece erano alla disperata ricerca di cicche.
I nordici, tedeschi, polacchi, ungheresi, ecc... che formavano il maggior numero erano in un'altra ala del forte.
Qualche rara integrazione avveniva tra italiani e spagnoli, con cui ci si capiva un po’. Di notte si dormiva in una lunga galleria sotterranea del forte, stretta e bassa assomigliante ad un rifugio di guerra e lì dentro l'aria già rara si faceva pesante, quasi irrespirabile. Anche lì si cercava di dormire accanto ad un connazionale, accanto ad un amico. Non c’erano finestre, solo qualche lampadina nelle svolte della galleria.
Tino aveva ormai altri amici che giocavano con lui, io che non giocavo frequentavo un gruppetto di italiani chiacchieroni e allegri.
Ogni mattina c’era l'adunata generale nella piazza del forte, inquadrati per nazionalità chiamavano con altoparlanti i nomi di coloro che dovevano recarsi alla visita, o quelli già visitati e abili, per fare la puntura o indossare la divisa. Si andava poi un'oretta a pelare patate per tornare poi sulla terrazza.
Tino di tanto in tanto mi diceva scherzando di stare certo che non mi avrebbero accettato perché troppo basso di statura e troppo magro. Ero infatti molto ansioso di sapere. Da cinque giorni ero lì e non mi avevano ancora chiamato, non so se l'ansia era dovuta dal timore di essere scartato o quello di essere accettato, eppure non mi ero pentito di avere firmato. Cosa avrei potuto rimpiangere?
Finalmente mi chiamarono per la visita medica e il giorno seguente mi richiamarono all'alto parlante per la puntura. Ciò stava a significare che ero idoneo, Tino invece lo scartarono e di lui non seppi più nulla. Prima di lasciarmi mi disse sarcastico che ne era ben contento di ritornare in Italia e che non avrebbe voluto trovarsi al mio posto. Non lo vidi mai più, anche perché la punturaccia che facevano in una spalla costringeva a stare due giorni a letto indolenziti in uno stanzone separati con gli altri punturati.

Tre giorni dopo mi consegnarono la divisa. Con quei vecchi scarponi chiodati, quei panni strani, quel képi cilindrico in testa mi sentivo terribilmente goffo e così conciato ritornai di sera a dormire per l'ultima notte nella galleria e presi posto accanto ad un italiano gigantesco. Nel gruppo belga poco lontano vi era un'altro colosso. Forse perché erano i due giganti protettori dei rispettivi gruppi, che i due si sentivano automaticamente rivali, fatto sta che in una svolta della stretta galleria l'italiano che voleva uscire incontrò il belga che invece voleva entrare. Tra le due file di letti vi era il passaggio per uno alla volta e nessuno dei due intendeva lasciare il passo all'altro, sicché nacque un diverbio. Ben presto alterato dai due gruppi avversi che sollecitavano ognuno il proprio gigante. Tra i due cominciarono a volare pugni che sembravano mazzate. Le loro teste sfioravano il soffitto e lo spazio attorno era strettissimo, se le dettero finché il belga si piegò in due poi cadde a terra con disappunto dei connazionali che lo incitavano ad alzarsi e a continuare. Intanto il gruppo degli italiani urlava trionfante e attorniava il gigante "buono" per complimentarsi. Esasperati dalle nostre grida di vittoria, uno del gruppo belga insultò il nostro gigante, gli rispose con le mani uno degli italiani, ne nacque così una rissa generale tra i due gruppi. In breve tempo volarono sedie, sgabelli, pugni e calci, finché l'arrivo di vecchi legionari calmò tutti.

Il 30 agosto del "54 si partì per l'Africa, eravamo circa in duecento.
Sbarcati nel porto di Orano proseguimmo sui camion per Sidi-Bel-Abbès che era il grande centro di smistamento della Legione. Da lì, dopo due giorni mi destinarono a Saidà per il periodo di addestramento.
Saidà, un paesino sperduto nella steppa tra il nord africano francese e il Deserto, costituito da circa duemila abitanti tra i quali tre o quattrocento europei che dettavano legge su tutto il paese.
La caserma era costituita da tre lunghi edifici che formavano una U, edifici di tre piani attorniati da alte mura. In ognuno vi era una compagnia di reclute.
Il convoglio che ci trasportò a Saidà era composto da cinque camion e una jeep, eravamo in un centinaio.
Arrivati nel piazzale della caserma verso le dieci di sera dopo il lungo viaggio, notammo subito l'ostilità dell'ambiente. Fummo accolti da vecchi graduati e legionari dall'espressione cattiva che urlando come ossessi davano ordini in francese che non capivamo. Ci fecero scendere dai camion, bagagli alla mano per condurci inquadrati alle camerate.
Mai come in quel momento ci parve di essere intrappolati da gente che da quel momento avrebbero avuto su di noi diritto di vita o di morte, da gente che istintivamente sentivamo già di odiare.

Ero ormai diventato la matricola 106.988 e appartenevo alla prima compagnia di addestramento. Capelli rasati quasi a zero, scarponi chiodati e usati, bustina in testa verde e rossa. Infagottato da una divisa color grigio-verde, non mi riconoscevo più, anche i miei compagni avevano cambiato aspetto, sembravano tutti uguali.
Nelle camerate vedemmo che le reclute arrivate solo ventiquattr'ore prima di noi avevano già disposto il loro corredo militare in un'ordine rigoroso sopra la testata dei propri letti. Ci avvertirono della durezza disciplinare, ci affrettammo ad imitarne il loro modello coi nostri corredi e ci coricammo.

Alla sveglia ci avvertirono che da ora in avanti, per le adunate sarebbe stato dato un solo colpo di fischietto in fondo alla scalinata dei tre piani . Per chi non lo avesse sentito sarebbero stati guai. Per le adunate del mattino alle sette e alle quattordici, dovendosi riunire tutto il battaglione veniva usata la tromba.
La mattina del giorno seguente la trascorsi tra le docce e i vari uffici per l'assegnazione di un complemento del corredo. A mezzogiorno mangiammo in un vasto refettorio con le mura tappezzate da manifesti e disegni raffiguranti battaglie di legionari che lottavano uno contro dieci morendo eroicamente.
Il pomeriggio lo trascorremmo in manovre di adunata col fischietto. Con la mia squadra eravamo al secondo piano e al colpo di fischietto bisognava correre giù, e farci trovare in trenta secondi ben allineati e immobili come statue.
Dopo cinque o sei prove, benché fossimo allineati nel tempo voluto, il nostro caporale continuava a urlare come un pazzo, perché vi era stato un ritardatario, perché qualcuno era caduto per le scale, o l’allineamento non gli piaceva, o ancora qualcuno aveva mosso la testa quando era in riga. Perciò si ricominciava, altro colpo di fischietto per sparire di corsa nelle camerate. Lì nuovo ordine, due minuti per mettersi in tenuta da combattimento, colpo di fischietto per l'adunata, risali di corsa, due minuti per mettersi in tenuta da lavoro, colpo di fischietto, e su e giù, tenuta di parata, e su ancora, e il tutto con urla e calci ai ritardatari o alla minima infrazione.

Era già calata la notte che per l'ennesima volta ci trovavamo giù ben allineati per sei in ordine di statura, immobili come statue e finalmente il caporale non trovò niente da ridire andò a chiamare il sergente maggiore per presentargli la squadra.
Occhio di vetro, così lo battezzammo perché effettivamente aveva un occhio di vetro. Era un polacco sulla quarantina d'aspetto scimmiesco. Massiccio, corto di gambe, con lunghe braccia pelose, di altezza media. Il viso tumefatto dall’acne e da cicatrici. Non lasciava prevedere niente di buono per il futuro. Questo salutò poi, senza fretta con le mani dietro la schiena ispezionò la squadra girandovi tutt’intorno in un silenzio perfetto in cerca di qualche altro motivo per ricominciare da capo. Questa volta la passammo liscia e senza una parola, salutò andandosene. Rompendo le righe ci preparammo per il rancio.
Eravamo tutti stanchi e scoraggiati, i graduati erano ormai il nostro terrore, i nostri nemici. Nessuno osava disubbidire, qualcuno pensava già di scappare.
La sventura ci aveva reso più uniti, il razzismo era meno marcato, ormai cominciavamo a conoscerci meglio a scoprire i difetti e le debolezze degl'uni e la resistenza degl'altri, il buontempone e il rognoso a prescindere dall'apparenza o dalla nazionalità. Tra razze diverse ci si guardava con minore ostilità, benché anche più avanti non sia mai avvenuta una reale integrazione e quando avveniva era in genere sempre tra latini e tra nordici.
Dopo cena dedicammo il poco tempo rimasto prima dell'appello a squadrare in modo perfetto gli effetti del corredo alla testa del letto, pulire, lavare, dare la cera attorno e sotto il letto. Ciò malgrado, al passaggio del contrappello ci scaraventarono tutta la roba in mezzo alla camerata urlando che il tutto era un obbrobrio e ci annunciarono che all'indomani mattina ci sarebbe stata una rivista generale di camerata e degli effetti di corredo.

Alle nove scoccate il caporale di giornata urlò l'attenti. Entrò occhio di vetro con i guanti bianchi e con un passo marziale, noi, tutti sull'attenti, allineati ai piedi dei propri letti sui quali era ben disposto il corredo nell'ordine prescritto. Le coperte ben ripiegate, la roba personale, le camice, le maglie, la gamelle, la tenuta da libera uscita, da combattimento, da sport, ecc...,
Nel silenzio più assoluto "occhio di vetro" si diresse verso un letto e, senza degnare di uno sguardo i legionari rimasti sull'attenti ne sollevò il materasso per passare con l'indice lungo la sbarra laterale del letto per portarselo poi davanti all'occhio inorridito. Poi, sempre in silenzio, si avvicinò al legionario col dito alzato e con disprezzo gli lo strofinò sul viso.
Piazzandosi in seguito nel mezzo della camerata ci disse: "Siete venuti qui per soffrire e vi garantisco che con me soffrirete, ripasserò tra mezz'ora".
Durante la mezz'ora ricominciammo tutti a pulire, a fregare, a ordinare a lucidare le sbarre dei letti e quando tornò si diresse verso un'altro letto. Si chinò passando la mano inguantata sul pavimento sotto il letto, ma un guanto bianco strofinato sulla cera difficilmente si ritrae perfettamente pulito.

Questa volta pareva che l'unico occhio gli saltasse fuori dall'orbita, urlò che non aveva mai visto degli sozzumi simili, oltre al fatto che ci avrebbe pensato lui a metterci a posto.
Due minuti dopo fece fare l'adunata in cortile e in colonna per sei, lui col fischietto cominciò a farci correre, buttarci a terra, strisciare, alzarci, correre, a terra, sempre a colpi di fischietto, così per più di un'ora. Alcuni non ce la facevano più, ma inquadrati da due caporali e da "occhio", si doveva continuare, chi non ce la faceva veniva fatto proseguire a suon di urla e calci.
Nel piazzale della caserma tuttavia non eravamo i soli, altre squadre subivano lo stesso trattamento.
Un giovane tedesco attardato e più stanco degl'altri osò fare un'osservazione al caporale che si accaniva su di lui. Non l'avesse mai fatto, il caporale gli si avventò contro dandogli dei pugni sul viso. Il tedesco, un certo Franz, per ripararsi dai colpi aveva alzato le braccia davanti al viso cercando contemporaneamente di allontanare il caporale infuriato, al ché, accorsero in rinforzo l'altro caporale e "occhio". I tre gli saltarono addosso riempendolo di pugni e calci fino a stordirlo, poi lo portarono in fureria.
Quando infine ci fecero salire nella camerata notammo dalla porta aperta della fureria il Franz, la faccia contro il muro con un foglio di carta tra il suo naso e il muro stesso, tremolante e insanguinato anche perché ogni qualvolta il foglio di carta cadeva a terra il caporale maggiore della fureria gli sbatteva violentemente la faccia contro il muro.
Quando infine passò la rivista di camerata per l'ultima volta in una quindicina ricevettero dagli otto ai quindici giorni di consegna, durante la quale dovevano svolgere in più ai già pesanti servizi altri lavori tra i più sgradevoli.
Il terzo giorno ci assegnarono il fucile e ci incamminammo fuori verso un boschetto distante due chilometri dalla caserma al fine di farci conoscere l'arma.
Partimmo alle otto precise in colonna per sei, i grandi in testa e i piccoli dietro in tenuta da combattimento.
Appena fuori dalla caserma i tedeschi che erano in maggior numero, circa il quaranta per cento, ebbero l'ordine di intonare nella loro lingua, un canto di guerra al ritmo del passo lungo e lento della Legione. Noi dovevamo cantare con loro ma, sia perché non conoscevamo la canzone, sia perché non sapevamo ancora marciare al passo, ogni tentativo dava risultati strazianti e "occhio" ne approfittava per allenarsi col fischietto, facendoci fare tutto il percorso correndo, buttarci a terra, facendoci strisciare coi gomiti e le ginocchia, e riprendere a correre sempre per sei e guai ai ritardatari.

Ogni giorno si andava nel boschetto ad esercitarci, mattina e pomeriggio. La lingua francese obbligatoria per tutti, cominciava a permetterci di comunicare tra noi, almeno per l'essenziale. Il tempo trascorreva lento, ogni giorno era un incubo e man mano passavano i giorni l'addestramento diveniva più difficile. Cominciarono i tiri col fucile le prime marce forzate di oltre trenta chilometri, con zaino elmetto fucile e munizioni, ma soprattutto con stivali chiodati, che, usati in precedenza da altri, i piedi ne soffrivano fino a sanguinare.
Ad ogni fine marcia vi era ad attenderci in una cascina custodita da arabi fedeli il "Miscuì", ossia i montoni allo spiedo che ancora cuocevano sui grandi fuochi all'aperto.
Per tali marce si partiva alle tre del mattino in fila per sei cantando canzoni di guerra tedesche qualche volta tradotte in francese. Per dividerci in colonna ai due lati della strada non appena usciti dal paese e proseguire in silenzio.
Durante le marce imparai presto ad economizzare l'acqua della borraccia, perché fuori, non era possibile reperirne e farla durare fino a sera.
Avveniva spesso che qualcuno svenisse da tanta stanchezza, ma era prontamente rimesso in piedi con punture a base di alcool, e bene o male doveva farcela. Solo verso il calare della notte si arrivava in vista della cascina araba, sudati, sporchi sfiniti, ma avevamo la bella sorpresa di trovare presso una cascina i soliti Miscuì attorno ai quali, una diecina di arabi, radunati davanti agli enormi bracieri erano intenti a far girare lentamente gli spiedi che ungevano di tanto in tanto col grasso fuso che colava. Noi, affamati, circondavamo i montoni sul braciere, uno per ogni squadra guardandoli dorare con l'acquolina in bocca.

Sebbene le marce fossero estenuanti io le preferivo alla vita di caserma dove la disciplina ferrea non si arrestava nemmeno di fronte al grottesco e le punizioni venivano effettuate a discrezione della fantasia degli istruttori.
Un loro debole era quello ad esempio, di far pulire ai puniti un gran pezzo di cortile con uno spazzolino da denti, o far stare le mani a terra, i piedi contro un'albero per una durata più o meno lunga, magari dopo aver messo sotto la testa del punito un escremento. Oppure ancora far tenere per lunghi momenti il fucile nelle due mani con le braccia ben tese in avanti e farlo saltellare ripiegato sulle ginocchia fino ad esaurimento delle forze, e questo capitava per un nonnulla.

Solo dopo due mesi di addestramento ci venne dato il permesso di uscire in paese la sera dalle diciannove alle ventuno. Era molto difficile riuscire a superare la porta del posto di guardia, Il capoposto ci aspettava lì in compagnia di un sott'ufficiale per squadrarci da capo a piedi. Ci si doveva fermare esattamente a sei passi di distanza, fare un saluto impeccabile con la mano destra, togliersi il képi con la sinistra e presentarsi: " Legionario tale, matricola tale, tale compagnia e squadra”. Se tutto il blàblà risultava perfetto, con un cenno il capoposto faceva avvicinare. Squadrava bene prima il legionario sull'attenti da vicino, verificava se le scarpe erano ben lucide, se la divisa era ben pulita e stirata con tutte le pieghe nel modo predetto, se la rasatura era fresca, se il taglio dei capelli era recente e la fodera del képi ben bianca. Ordinava allora il dietro front che doveva essere eseguito in modo impeccabile per vedere se la pieghe della divisa erano ben fatte. Poi nuovamente il dietro front per controllare se dentro la képi vi era l'ago, il filo e i due bottoni prescritti dal regolamento. Se il fazzoletto era candido e ben piegato e se tutto era a posto si era autorizzati a uscire per recarci solo nelle zone detenute dagli europei dove c’era il casino, due o tre bar e alcune piccole trattorie.
I quartieri arabi erano vietati sia per il pericolo di venire sgozzati che per evitare contatti e accordi per un'eventuale evasione.
Due ore settimanali venivano dedicate al lavaggio degli indumenti personali. Andavamo inquadrati a lavare in un fiume poco distante. In quanto allo stirare, ognuno si arrangiava, i graduati volevano solo vedere i panni stirati con le pieghe impeccabili. Se qualcuno non sapeva cavarsela col ferro da stiro gli dicevano: "Demerde tuà", cioè arrangiati.
Io come altri del resto, mettevo i panni ancora umidi sotto il materasso ben stesi per una notte, li ritiravo ancora umidi per fare le pieghe passando la stoffa più volte tra i denti di un pettine.
Le riviste erano sempre più frequenti e ripetute spesso fino a tarda notte e se non erano ancora soddisfacenti si ripetevano le punizioni di massa con marce forzate notturne durante le quali non mancavano i fiumi da attraversare con l'acqua fino al ventre, o farci fare più volte il percorso dei combattenti, o farci correre e strisciare a terra preferibilmente nel fango.
Inutile dire che il morale era a terra per tutti, ma non ci restava che ubbidire. Odiavamo i graduati senza osare dimostrarlo, ci sentivamo impotenti, anche perché al minimo segno di contrarietà non esitavano ad usare metodi di repressione senza limiti, visto che ormai erano i padroni assoluti delle nostre vite. D’altra parte a chi mai ci si poteva rivolgere per ottenere qualche aiuto ?. Anche in caso di morte si veniva interrati lì nell'incognito e non se ne parlava più.

Il passato civile ormai non era più che un sogno lontano, in quel luogo si apparteneva ad un'altro mondo, il mondo dei bastardi.
La vita era dura per tutti, ma in special modo per coloro che non si piegavano totalmente al loro volere, o per coloro che erano abituati ad una vita più comoda, o ancora per coloro che venivano presi dalla nostalgia di aver lasciato qualche persona cara.
Anch'io sopportavo male tali trattamenti, ma nei confronti di tanti ero già vaccinato ad una vita dura e non avevo famigliari da rimpiangere.
In molti avevano tentato di disertare, ma nessuno vi era riuscito. Eravamo isolati da qualsiasi centro abitato da diverse centinaia di chilometri, essendo Saidà circondato da immense steppe senza acqua. Le coste e i porti di mare erano tutti sotto sorveglianza e qualsiasi arabo che catturava un disertore o contribuiva alla sua cattura, riceveva un premio di diecimila franchi. Nella miseria in cui vivevano queste persone per guadagnarsi quei soldi erano disposti anche a uccidere.
I primi a tentare l'avventura nella nostra compagnia furono tre tedeschi, ma vennero riportati alla caserma quattro giorni dopo. In tale occasione cera l'adunata di tutta la compagnia disposta in riga a forma di una U innanzi alla fureria. I tre disertori trascinati al centro vennero fatti inginocchiare su sbarrette triangolari in modo che il peso del corpo riposasse sul taglio del triangolo.
Erano irriconoscibili, sfiniti laceri e sanguinanti. Erano lì inginocchiati con la schiena ricurva e la testa abbassata, pallidissimi con gli sguardi smarriti senza poter chiedere aiuto a nessuno. Anche i loro amici li guardavano con pena e disprezzo per essersi fatti catturare, perché davano ancora l'occasione ai graduati di disporre come volevano delle nostre vite.
Due caporali gli si avvicinarono e cominciarono a stagliuzzargli i capelli a zero strappandoglieli in parte e sghignazzando mentre un sottotenente faceva un discorsetto per convincerci a non ritentare l'esperienza. Vennero poi trascinati in fureria dove "occhio" con alcuni compari si dilettò a passarli a tabacco prima di consegnarli alla "compagnia disciplinaria"dove i trattamenti erano ben peggiori. Celle buie e tanto piccole da costringere il detenuto a stare solo in piedi, a correre e strisciare a terra fino allo svenimento a torso nudo con lo zaino in spalla contenente una trentina di chili di sassi e con filo di ferro al posto delle spalliere in modo che col peso entravano nella pelle nuda.
Erano parecchi a finire lì dentro e quando uscivano, se uscivano, non erano più uomini ne matricole, ma animali sottomessi e intorpiditi dai maltrattamenti.
Ogni mattina prima dell'inizio dei supplizi, venivano passati in rivista da un maresciallo tedesco con molte medaglie al petto e con le due gambe di legno che camminava a stento con le stampelle. Alto, grosso, rosso in faccia, col naso violaceo e spesso ubriaco. La sua voce era tonante, sempre coleroso con tutti, soprattutto con le reclute, peggio ancora con i puniti e quando li passava in rivista lo si sentiva urlare a centinaia di metri di distanza. Con le stampelle sfogava spesso la sua ira sui detenuti che dovevano rimanere sull'attenti. Lo conoscevamo bene tutti perché da lui erano ispezionati i cambi di guardia che ogni giorno, alle diciassette precise avvenivano al centro della caserma e a quell'ora le sue grida tuonavano in tutto l’ edificio punendo per la minima infrazione. Punì anche me, perché negli scarponi mancavano due borchiette. Mi presi due giorni di consegna: uno per ogni borchietta.

Le prime esperienze avute nella Legione Straniera sono dunque state poco lusinghiere. La paga mensile era di millecinquecento franchi, appena sufficienti da permetterci una scopata al casino. A quella paga si aggiungeva una piccola parte del premio d'ingaggio che ci davano un po’ per volta per il timore che tale somma versata in una sola volta favorisse la diserzione. Una cena fuori dalla caserma costava mille franchi, non cera molto dunque da sperperare.
Nel casino vi erano tre o quattro donne continuamente "in servizio",
europee o arabe ma comunque fisicamente diroccate.
Per fortuna i tedeschi preferivano in genere spendere i loro soldi in birra, altrimenti ci sarebbe stato da fare la coda per ore. Ci andavamo a volte anche solo per sorseggiare una birra stando seduti nella grande sala d'attesa. Quell'atmosfera di falsa allegria ci permetteva di scordare per qualche instante la caserma e ci dava l'impressione di riallacciare qualche legame con la vita civile e di essere ancora uomini.

Durante i sei mesi di CAR tentarono di disertare in parecchi e in vari modi, ma nessuno, almeno della mia compagnia vi riuscì. Tentarono travestiti da "fatimà", ossia da donna rubando cavalli, in treno, camminando solo di notte. Tutti ricomparirono accompagnati dai gendarmi.
Non si scappava da Saidà, il luogo era stato scelto con cura dai francesi. Se anche qualcuno fosse riuscito ad attraversare la steppa, ne sarebbe uscito talmente malconcio che non avrebbe potuto evitare di entrare nelle prime abitazioni che trovava per chiedere da bere o cibo. Si diceva che in quei casi gli arabi facevano cortesemente entrare, offrivano di ché dissetarsi e invitavano a riposarsi prima di ripartire. Nel frattempo qualcuno andava ad avvertire i gendarmi che prontamente arrivavano. Bastava che fossero intercettati anche a distanza per essere perseguiti da arabi e gendarmi anche con i cani da caccia.

Nel febbraio "55 finalmente terminò il periodo di addestramento, eravamo tutti contenti di partire da quel luogo anche se la destinazione ci era ignota.
Eravamo tutti pronti per la partenza, solo i disertori mancavano, essi dovevano ripetere i sei mesi del CAR.
Quel mattino tutto il battaglione era schierato ad U nel grande piazzale della caserma per esibirci in alcune dimostrazioni del completato addestramento davanti ad un Colonnello venuto da chi sa dove. Gli ordini rimbombavano nella caserma seguiti dai movimenti d'insieme perfetto nel maneggiare le armi e dai frastuoni da esse provocati. Frastuono che l'eco ci rimandava come un boato.
"Siete ormai dei soldati”, disse il colonnello rivolgendosi al battaglione sull'attenti, “soldati per una Nazione che saprà dimostrarvi la sua gratitudine. Siete ormai soldati francesi, trattati e pagati come loro e alla fine del contratto avrete gli stessi diritti e doveri di qualsiasi cittadino francese", terminò poi dicendo: " La Francia vi ha adottati, siatene degni".

Partimmo il giorno seguente intasati dentro a dei vagoni bestiame con la scritta "Cavalli quarantotto, uomini centoventi". Direzione Tunisia.
Arrivammo a Tabarcà dopo un lungo viaggio e ci accampammo per alcuni giorni sotto le tende in attesa di essere smistati nei vari reggimenti. Mi destinarono al primo Battaglione del secondo Reggimento che raggiunsi con altri pochi giorni dopo ad Ain Dramm.
Capitammo proprio in un periodo di piogge. Il reggimento era accampato sotto le tende fuori dal paese e sommerso dal fango e dall'acqua. Il Reggimento aveva appena fatto ritorno dalla sconfitta indocinese e i suoi uomini erano scarsi. Si trovava lì di passaggio per alcune settimane, il tempo di riorganizzarlo e saremmo ripartiti. Gli anziani ci accolsero con benevolenza, niente ironie ne scherzi. I loro visi abbronzati dal sole sorridevano solo quando, tra i nuovi arrivati reperivano un connazionale. I loro racconti erano impressionanti e interminabili, ognuno riportava dei ricordi dal lontano Estremo Oriente, ricordi di ogni sorta, foto di ragazze, di mogli comprate, di figli abbandonati. Alcuni giuravano che alla fine dei cinque anni sarebbero ritornati con le loro donne, altri mostravano fieri le loro medaglie guadagnate laggiù. Pochi parlavano dei morti, dei tanti morti, loro erano lì e ricordavano volentieri i momenti migliori e basta.
La disciplina era meno rigida, i graduati meno arroganti ma sempre con notevole autorità sin dai semplici caporali.
Sotto le tende non c’era più l'ordine perfetto, i letti erano sempre ben squadrati come del resto il corredo alle testate. Non era più l'incubo di Saidà. Il fucile e le munizioni restavano accanto ai letti in permanenza, i servizi e le corvè erano distribuiti in modo uguale senza distinzioni di anzianità o di razze. Il rancio era sempre poco buono, fatto e consumato alla benemeglio, anche il caffè era la solita scodella fatto con orzo.

Da lì partimmo per Souk El Arbà un paesetto al nord della Tunisia.
Come Saidà, anche Souk El Arbà era composta da una minoranza di europei, due o trecento che dominavano più di tremila arabi.
Ci installammo in una casermetta decente attorniata da mura fortificate a forma di quadrato. Gli otto mesi trascorsi in quel paese sono stati senza storie, qualche allarme, qualche pattuglia in vari paesi quali Biserta, Cartagine, El-Gemm, Le Chèf, Teboursouk, Souk Aras, ecc.. Qualche sfilata a Tunisi, ma niente di serio. Anche quando arrivò Bourguibà al potere ci fu da sopprimere qualche subbuglio ma non si sparò un colpo.
In caserma la disciplina era sempre rigida, oltre ai servizi di guardia di picchetto o di pattuglia, di ritorno in caserma la disciplina, l'ordine, le frequenti riviste e gli addestramenti riprendevano a ritmo incalzante come le punizioni. Le lunghe ore di sentinella sulle torrette di guardia specie di notte erano lunghe e cullate dalla quiete di quelle notti tiepide. Era facile lasciarsi vincere dal sonno, solo il timore delle tremende punizioni facevano sopportare gli interminabili rullii di tamburi provenienti dai villaggi vicini, o i frenetici battibecchi delle cicogne.
In libera uscita eravamo ugualmente autorizzati a frequentare solo i quartieri europei. Nei piccoli "bistrot" sempre affollati in particolar modo da noi latini in cerca di un'avventuretta sentimentale a buon mercato con una europea o un'indigena. Dico a buon mercato perché i soldi scarseggiavano, circa undicimila franchi mensili, coi quali andare sei, sette volte al massimo a cena fuori.

A Souk El Arbà come del resto in tutti i paesi dove si erano installati gli europei, vi era molta discriminazione tra questi e gli arabi. Anche due persone che lavoravano assieme per lo stesso lavoro. Se uno era europeo guadagnava diecimila franchi al giorno, se era arabo settecento, malgrado il fatto che, generalmente l'arabo avesse molti più figli da mantenere.
Ma in genere gli europei erano dei coloni e regnavano in dittatori sulla comunità indigena la quale, oltre ad essere sfruttata fino allo schiavismo era disprezzata, maltrattata e sorvegliata da un servizio d'ordine che si premurava solo di mantenere il predominio dei bianchi su di loro. Noi eravamo lì per dargli man forte, per difendere quel pugno di prepotenti e rischiare la vita se necessario per salvaguardare i loro interessi. Vedevo quelle cose solo allora, quando firmai non ne ero al corrente, pensai solo a tamponare le mie beghe personali.
La sera uscendo in paese venivamo rincorsi da nuvoli di giovinetti, maschi e femmine sui dodici tredici anni che con la speranza di guadagnare qualche centinaia di franchi ci offrivano i loro servizi o si prostituivano, disputandosi l'eventuale cliente come dei commercianti che offrono una merce concorrenziale.
La miseria, le ingiustizie, i maltrattamenti e tanta prostituzione dapprima mi stupirono, ma ben presto divenne uno spettacolo abituale di quei posti.

Otto mesi dopo partimmo da Souk El Arbà per Ain Serruià, una zona montagnosa vicino alla frontiera dove erano avvenuti alcuni attentati.
Ci installammo sotto le tende in piena foresta di alberi da sughero. La compagnia era divisa in quattro squadre distanti l'una dall'altra qualche chilometro e ognuna doveva controllare una certa zona. Anche la mia squadra si accampò nella boscaglia e appena montate le tende ci mettemmo a tagliare alberi e cespugli tutt’intorno per un raggio di oltre duecento metri con pale e picconi, in modo che, in caso di attacco, gli assalitori fossero allo scoperto. Il lavoro durò alcuni giorni durante i quali una delle sezioni subì un attacco senza perdite umane. Temevamo il ripetersi delle ostilità da un'istante all'altro.
Nella foresta vi era molta selvaggina: cinghiali, sciacalli, lepri, scimpanzé, ma nessuna abitazione per diecine di chilometri.
I viveri ci arrivavano con un convoglio di camion che ci collegavano alla base del battaglione ogni settimana. Le munizioni individuali ci erano state raddoppiate. Io avevo un fucile M.A.S. 36 con cento cinquanta cartucce e quattro bombe a mano.
Sentendo che poco lontano una sezione dei nostri era stata attaccata, la prima notte di guardia non mi sentivo molto rassicurato. Era la prima volta che mi trovavo allo scoperto e rimpiangevo le mura protettrici della caserma.
Non c’era la luna ed era buio pesto. La consegna era quella di pattugliare continuamente ai bordi dei cespugli al limite della macchia oscura della foresta per un percorso di un centinaio di metri, e sparare se necessario dopo aver intimato l'alt.
Le tende del campo erano lontano dietro di me e non le vedevo. Non ero ancora molto esperto ma capivo che muovendomi costituivo un facile bersaglio per qualcuno in agguato dietro i cespugli, perciò scelsi di restare immobile tra gli arbusti circa a metà percorso di ronda per ascoltare nel buio. I minuti passavano lentamente. Qua e là un ululato di sciacallo o di altri animali, o ancora qualche uccello notturno. Per momenti il silenzio era totale, solo un leggero venticello smuoveva le foglie degl'alberi. In lontananza sentivo lo scricchiolio di rami spezzati.
Due ore in certi casi sembrano interminabili. Ad un tratto si alzò non molto lontano un razzo illuminante color rosso. Ci siamo mi dissi, questa sera tocca a noi, proprio ora che sono di guardia io. Che fare? Se avessi visto qualcuno avrei dovuto sparare, ma un razzo? Non potevo nemmeno abbandonare il mio posto per andare ad avvertire il caporale di ronda. Forse i ribelli erano già appostati attorno al campo e non aspettavano che un segnale per attaccare. Prima di dare l'allarme, prima di svegliare tutti dovevo esserne certo, aspettiamo ancora un po' mi dissi.
Ad una cinquantina di metri sentivo tra gli alberi un calpestio di foglie secche che nella foresta formavano un alto strato, mi pareva anche di udire un bisbiglio di voci, deve esserci qualcuno mi dissi, sembravano in molti anzi.
Cosa fare? Sparare? Chiamare? gridare l'alt? Ma no, forse mi sbagliavo e in tal caso all'indomani tutti mi avrebbero deriso. Ah questo maledetto buio, pensavo. E il caporale di ronda che non si fa vivo.
Lentamente per non fare rumore misi una pallottola in canna, però se sono più di uno ad assalirmi non avrò il tempo di ricaricare di nuovo, mi dicevo. Estrassi lentamente la baionetta e la innestai. Ormai sentivo distintamente qualcosa avanzare tra il fogliame secco, forse erano in una ventina di persone e nel punto in cui proveniva il fruscio qualche uccello disturbato prendeva il volo.
Allora c’era davvero qualcuno. La baionetta puntata, il dito sul grilletto, aspettavo di vederli sbucare col cuore in gola. Ma cosa aspettavo a dare l'allarme? No, volevo essere certo di non sbagliarmi, d'altra parte io avevo il vantaggio di sentirli, loro non mi vedevano e non sapevano che ero lì. Il rumore si avvicinava e io trattenevo il respiro il più possibile temendo di farmi sentire. Sbarravo inutilmente gli occhi per cercare di vedere qualcosa ma solo l'udito poteva aiutarmi. Ora sentivo chiaramente dei passi, ma provenienti dal mio fianco, non dalla foresta. Forse ero circondato, appena lo vedo sparo, mi dissi. Ecco l'ombra, lì a pochi passi, sparo? Pensai. Mi ricordai della consegna e gridai " Alt! Parola d'ordine o sparo!”
" Tebessà ", mi rispose una voce." Avanti ", replicai.
Che sospiro di sollievo, era il caporale di ronda. Tolsi la baionetta prima che lui si accorgesse che l'avevo innestata.
"Niente di nuovo qui?",” sì”, dissi, “ poco fa hanno tirato un razzo in quella direzione”. "Lo so”, rispose, l'ho visto anch'io, ma era molto lontano". "Ho sentito anche dei rumori nel fogliame”, gli dissi indicandogli la direzione. "Ah si?, devono essere delle bestie", rispose mentre raccoglieva un sasso per gettarlo nella direzione indicata. Al tonfo del sasso ne seguii una corsa precipitosa tra il fogliame.
Sorrisi anch'io pensando che per me era stata una bella lezione.
"Bèh” continuò il caporale allontanandosi, tra venti minuti ti manderò il cambio". Restai nuovamente solo ma tranquillizzato, mi veniva voglia di ridere. Che paura però !.
Il mattino seguente andai a dare un'occhiata al posto in cui avevo sentito i rumori perché non mi spiegavo il bisbiglìo sentito la notte precedente. Sul posto la terra era stata mossa qua e là in una larga striscia. Era stato un grosso branco di cinghiali e i loro sbruffi li avevo scambiati per un bisbiglio.
Infatti la foresta ne era infestata e a volte andavamo a cacciarli accompagnati dagli Harkì ( volontari indigeni ex combattenti in altri eserciti francesi, ora volontari tra noi, come guide e interpreti ); oppure andavano loro a cacciarli ma senza toccarli. Se a volte ne uccidevano qualcuno si limitavano poi a segnalarci dov'era la preda abbattuta.
I tre mesi trascorsi in quel posto furono i migliori passati nella Legione. Di giorno qualche pattuglia a piedi nella foresta, di notte qualche imboscata ad un nemico immaginario. Anche la guardia di notte non mi impressionava più di tanto, ero abituato ormai agli strani rumori della foresta.

Eravamo nel dicembre del "55 e in Tunisia regnava una calma più o meno generale. Qualcosa però cominciava a fermentare in Marocco. Anche loro, dopo gli indocinesi e i tunisini, volevano l'indipendenza. Siccome la Francia non manteneva la Legione per fare rischiare pericoli ai suoi figlioli fu così che ai primi subbugli si partì per il Marocco dopo che il battaglione fu riunito frettolosamente.
I vagoni bestiame ci portarono a Meknès dove facemmo tappa per una diecina di giorni, al termine dei quali cominciammo a pattugliare senza sosta su delle camionette scoperte in varie località: Rabat, Casablanca, Marrakech, Agadir; per non parlare delle città più importanti, sostando qua e là anche solo poche ore, sempre in tenuta da combattimento e con le armi pronte. Mangiavamo razioni preconfezionate, ossia il "Pacifique" contenente in ogni scatola la porzione giornaliera, vale a dire: una scatoletta di tonno, una di sardine e un'altra di manzo, cioccolato, pastiglie di sale, una bottiglietta di rum, un pacchetto di sigarette, caffè solubile, marmellata, fiammiferi, e carta igienica. In disparte pane o gallette.

Il 4 febbraio del "56 ritornammo alla caserma di Mehnès che era ormai sera dopo tanti giorni di pattugliamento autotrasportato. Poco dopo il nostro arrivo ricevemmo l'ordine di ripartire con nuove scorte di viveri.

Viaggiammo tutta la notte sostando brevemente di tanto in tanto. Solo a Boulemane sostammo più a lungo. Ripartimmo per arrivare verso le dieci del mattino in vista di un piccolo villaggio composto da un centinaio di catapecchie indigene. Al centro delle quali vi erano una ventina di case di europei dalle quali si elevava un denso fumo. Era successo sicuramente qualcosa.
Ci fecero scendere qualche centinaio di metri prima del villaggio per farci avanzare a piedi distanziati.
Gli indigeni invece di ignorare il nostro arrivo come del resto erano soliti fare, ci guardavano con paura cercando di non mostrarsi. Avanzammo tra i baraccamenti arabi, sparpagliati con le armi alla mano.
Arrivati alle case europee ci si presentò uno spettacolo orribile. Tra il fumo e il sangue coagulato giacevano cadaveri di uomini, donne e bambini seviziati in modo orripilante. Una donna incinta era stata squartata, alcuni bambini bruciati vivi, ragazzine violentate e sgozzate, un'altra donna nuda aveva i seni tagliati.
Non vidi altro perché la mia squadra passò oltre per andare ad appostarsi più in alto e prendere posizione tra alcune baracche vuote mentre il resto della compagnia rastrellava il villaggio.
Mi domandavo chi avesse potuto fare una simile carneficina, sapevo certo che l'odio degl'arabi verso gli arroganti coloni era giunto al culmine, ma non mi spiegavo tanta furia selvaggia. Lo spettacolo visto mi dava la nausea. Quanti potevano essere stati i cadaveri? Dieci? Venti? Qualche sospettato venne arrestato e fatto parlare, il Kaìd del villaggio era tra loro e manteneva il silenzio. Gli altri interrogati dissero che una tribù vicina si era ribellata ai soprusi francesi ed era venuta a compiere la strage per poi ritirarsi nelle sue zone. Tutti erano a cavallo.
Partimmo subito verso il luogo indicato dopo aver lasciato una squadra in quel villaggio chiamato Immouser de Matmousciar.
In poche ore arrivammo al villaggio di Missoùr le cui costruzioni tutte in terra rossiccia erano a due piani, senza finestre, come del resto tutte le case arabe, ma a differenza delle altre che terminavano in terrazzi queste erano composte di due o tre piani e finivano con i bordi merlettati come castelli antichi.
Ci accampammo per la notte circondando il villaggio disponendoci in piccoli gruppi. Benché avessimo già perquisito casa per casa non trovammo altro che donne e bambini nessuna arma e niente di sospetto. Gli uomini, secondo le informazioni percepite erano tutti a pascolare. Qualche pollo finito negli zaini durante la perquisizione servì da cena, ma non riuscimmo a mangiarli in pace perché le pulci raccolte nelle case disturbavano, sia la cena che il controllo dei magri bottini raccolti: anelli, braccialetti, cavigliere, orecchini dai quali penzolavno tante medagliette, tutto in argento lavorato primitivamente era ciò che avevamo trovato.
In quelle case non vi era niente di valore . Come tutte le abitazioni non vi erano letti ne mobili, ne sedie, solo un po’ di paglia in un angolo per dormirvici sopra vicino agli animali quando ne avevano. Solo i più benestanti avevano in più all'interno delle case un tappeto sul quale mangiare e dormire, qualche coperta di lana di pecora fatta a mano da loro stessi, qualche anfora per il grano o per il latte cagliato di pecora o di cammella, la teiera, la caffettiera, qualche bicchierino sporco, qualche vecchio tegame e l'immancabile pelle di capra per la riserva di acqua, qualche lampada a petrolio, dato che l'elettricità era sconosciuta, tutto lì.

Restai sveglio tutta la notte per dare la caccia alle pulci installate un po’ ovunque su di me, soprattutto nelle caviglie e nei risvolti dei pantaloni. L'indomani sera ripartimmo per Immousèr de Matmouscàr dove dopo due giorni partecipai ad una fucilazione, pare che fossero i principali responsabili del massacro.
Li trasportammo in camion lontano dal villaggio, erano in tre legati e sdraiati sul pianale del camion. Io mi trovavo nello stesso veicolo seduto con i miei compagni sulle panchine laterali, mentre gli arabi erano ammucchiati ai nostri piedi. Uno di loro avrà avuto una quarantina di anni, gli altri due erano più anziani. Dai loro turbanti e dai loro vestiti parevano di rango sociale più elevato della media. Arrivati in un luogo deserto scendemmo per metterci in posizione di protezione in una altura vicina che dominava il percorso che dovevano fare i condannati, una trentina di metri per arrivare ad un alberello, ai piedi del quale vi era una conca naturale. Vedevo bene tutta la scena. Il plotone di esecuzione era pronto accanto all'albero, un'anziano dall’ Indocina aprì la porta posteriore del camion dicendo ai prigionieri: " Ehi!, chi di voi vuole essere il primo, non ci sono volontari? Prendiamo barbetta? Gli rispose un compagno vicino. "No”, continuò il primo,” cominciamo dal più giovane, alè scendi",disse tirandolo per i piedi. Quello sulla quarantina ruzzolò a terra. Sostenuto per le braccia si alzò, anche se era pallidissimo si notava un volto duro. Si guardò intorno rapidamente, qualcuno lo spinse in avanti gridandogli: "Cerchi ancora di scappare? Cammina!" Arrivati all'albero, ve lo legarono contro e dopo averlo bendato partì una prima scarica di fucile. Ebbe un sussulto seguito da un folto sgorgare di sangue da sotto la djellabà, ossia quella specie di lunga sottana in lana di pecora a strisce marrone e bianche con cappuccio.
Un sergente tagliò con un pugnale la cordicella che lo legava al tronco dell'albero e il corpo ruzzolò nella conca sottostante. Lo stesso sergente scese poi accanto al corpo per sparargli un colpo di pistola alla nuca. Seguirono gli altri due, poi ripartimmo.
Immouser era situato sulla catena montuosa del Medio Atlas. Era il mese di febbraio e il freddo era intenso. Eravamo installati nelle vecchie catapecchie abbandonate fatte in terra col tetto costituito da rami secchi e erbacce ricoperte da uno strato di terra che fungeva da terrazzo. La neve era abbondante.
Trincerati in quelle catapecchie indigene, buie e fredde eravamo ancora tra i fortunati a non avere delle infiltrazioni d'acqua dal tetto. La mia compagnia aveva preso posizione e chissà quando saremmo ripartiti. Noi eravamo con il Commando della compagnia ma la terza squadra si era installata a venti chilometri più in su in piena montagna.
Quando non si lavorava per fare le fortificazioni ci facevano fare le strade. Ci davamo da fare con mazze, picconi e pale sempre con i fucili accanto. Una volta la settimana si andava a Talzèm coi muli per portare viveri e posta alla terza squadra. La pista da percorrere era stretta, tortuosa e ricoperta da un folto strato di neve. I muli stracarichi spesso finivano a ruzzoloni giù per i pendii.

Nel frattempo ci era pervenuta la voce che nel settore di Oujdà era scoppiata la guerriglia tra marocchini e francesi. Ci aspettavamo di partire da un momento all'altro.
A Immousèr la sera non si sapeva dove andare, non c’era nulla aldifuori di qualche lugubre negozietto gestito da ebrei. Non c’era nessun passatempo. Io, assieme ad altri tre spagnoli andavo spesso da Braìmm a cenare. Era un negro alto e secco con un nasone enorme. Viveva in due stanzone al piano terra, visto che quelle casupole erano di un solo piano. Viveva con la moglie alta e grossa, dello stesso colore di pelle, un donnone che ho sempre visto seduta in un angolo vicino all'ingresso con lo sguardo nel vuoto. Avevano tre figlie dai tredici ai sedici anni.
La sera Braìmm, appena ci vedeva arrivare senza una parola cominciava a radunare dei pezzetti di legna in mezzo ad una delle stanze. Accovacciato a terra con le gambe incrociate accendeva il fuoco e cominciava a prepararci il solito ammelèt con cipolla e venti uova.
Solo quando il fuoco era acceso completamente la stanza si rischiarava un po’ mentre noi aspettavamo la cena seduti al suolo contro la parete nuda e annerita dal fumo.
Allo scarso bagliore delle fiamme osservavo affascinato e preoccupato Braimm, chino col volto sulla padella, mentre svolgeva il lavoro con gesta lente e precise come fosse stato davanti ad un altare; temendo che non arrivasse in tempo ad asciugare col dorso della mano la goccia che colava dal grosso naso sfigurando quel suo viso scheletrico rischiando di finire nell’omelette. Un lembo del suo turbante incolore penzolava sui grandi occhi piagnucolenti e spenti. Lo usava di tanto in tanto al posto del dorso della mano.
Nella penombra attraverso il fumo che non voleva uscire dal buco centrale del tetto, osservavo le sue lunghe mani nodose e scheletriche maneggiare la padella e il forchettone di legno, attizzando di tanto in tanto il fuoco. Non si vedeva la moglie, ma la immaginavo fissa al solito posto vicino alla porta. Le tre figlie, sedute su un mucchio di stracci contro la parete opposta alla nostra, aspettavano con ansia che terminassimo di mangiare per venire con noi nell'altra stanza completamente buia per farci fumare il Kìff e fare all'amore; mentre Braìmm riprendeva la sua posizione di interminabile attesa accanto alla moglie.
Prima di ripartire davamo al passaggio cinquecento franchi ciascuno. Braìmm abbassava un po’ il capo in segno di ringraziamento, mentre le figlie venivano fin sulla porta a salutarci per scomparire nel buio.

Partimmo nell’ agosto del "56 da Immousèr di Matmousciàr per Immousèr de Kandàr dove restammo tre mesi.
Dopo aver concessa l’ indipendenza alla Tunisia e al Marocco, i sabotaggi cominciarono in Algeria. Le bombe al plastico scoppiavano nei bar, nei cinema, nelle case dei grandi centri, mentre nelle periferie delle città cominciarono gli attentati alle persone, soprattutto ai coloni. Ecco perché nel novembre "56 il mio Battaglione si riunì a Fez alfine di partire per l'Algeria.
In oltre due anni non avevo mai sparato un colpo e non mi ero mai trovato in una battaglia, cominciavo a pensare che in realtà non vi fosse poi tanto pericolo nella Legione, la gente è sempre esagerata, pensavo.
Attraversammo la frontiera del Marocco e dopo brevi soste a Tlemcènn, Algeri, Setìf, Costantine arrivammo a Djigellì, zona infestata dai rivoluzionari dell'F.L.N. ( Fronte di Liberazione Nazionale), denominati dai francesi Fellagà.
Appena arrivati il mio Battaglione venne trasformato in "Compagnie pronto intervento trasportato", io venni assegnato alla decima.
Le compagnie vennero sparpagliate su un vasto settore con ognuna il compito di sorvegliare una data zona.
Noi prendemmo posizione in un’area montagnosa e piena di boscaglie tra Djigellì e Ziama-Mansourià.
Le strade che collegavano le principali città del nord erano costeggiate dal mare da una parte e dai monti dall'altra. Monti che in certi punti cadevano a strapiombo sulla strada, e proprio quelli erano i punti in cui di solito i Fellagà attaccavano i convogli militari e le auto dei civili con le armi o facendo ruzzolare dei massi .
Quel mattino del febbraio "57 ci svegliarono alle quattro, pronti a partire in mezz'ora con zaino, due giorni di viveri e il necessario per dormire sotto le stelle.
Una diecina di elicotteri del tipo "banana" ci attendevano poco distante.
Prima di salire ci avvertirono che saremmo stati depositati vicino ad un grande villaggio e la consegna era quelle di entrarvi per uccidere tutti gli uomini dai quattordici anni in su.
Arrivati sul posto vidi che altre compagnie della Legione avevano già accerchiato il villaggio. La mia compagnia si dispose in linea e cominciammo ad avanzare verso il centro del villaggio.
Gli abitanti erano ancora a tutti a letto o in casa non si accorsero del nostro arrivo o fecero finta credendo si trattasse della solita perquisizione, ma gli spari cominciarono ad echeggiare per divenire in breve una sparatoria incessante accompagnata dalle grida delle donne. In testa al mio gruppo vi era uno spagnolo che col fucile mitragliatore sparava come un pazzo. L'emozione piegava le mie ginocchia e lo sforzo per reggermi causava un certo tremolio alle gambe. Davanti a me fuggirono tre giovani usciti da una casa vicina. Mi passarono davanti a pochi passi, feci finta di non vederli, ma poco più in là furono falciati da un tedesco.
Passando tra due baracche vidi un vecchietto ancora mezzo nudo con la barba bianca, mi si pose innanzi con gli occhi smarriti tremando più forte delle mie gambe, si era accorto che stavamo uccidendo tutti gli uomini. Era lì davanti a me terrorizzato, gridava in lingua francese di non sparare perché aveva combattuto quindici anni per la Francia, e con mano tremante mostrava la medaglia guadagnata combattendo.
Il mio mitra era puntato su di lui, cosa fare? Avevo l'ordine di sparare senza esserne capace. Avrei tanto voluto non averlo visto, ma era lì, impietrito non scappava. "Bèh, cosa aspetti a sparare?" Disse la voce del sergente alle mie spalle che aveva visto tutta la scena. Era un Corso, un certo Anitei, era sempre stato negli uffici e solo da poco lo avevano assegnato ad una compagnia operazionale. Tra noi due vi era un po’ di simpatia, sia perché nasce spontanea tra Corsi e gli italiani, ma soprattutto perché lui non era ancora "indurito" dalla vita operativa. " Ma sergente”, gli dissi “ sto poveraccio ha la medaglia al valore militare, ha combattuto quindici anni per la Francia come posso sparare?" " Ma tu”, rispose “ hai degli ordini o no?" Così dicendo armò il suo Wincester e lo puntò all'arabo, io lo guardai fare. Rimise la carabina in spalla dicendo all'arabo: " Harrùa ", cioè vieni.
In realtà era emozionato come lo ero io, nemmeno lui aveva mai ucciso a sangue freddo. Ci incamminammo tutti e tre attraverso il villaggio. L'ondata selvaggia era già passata, noi eravamo rimasti indietro.
Passammo accanto ad un anziano accovacciato a terra ferito ad una coscia che con le mani cercava di contenere il sangue che fuoriusciva abbondante. Passammo oltre senza vederlo, ma dopo pochi passi una raffica mi fece voltare. Il vecchio non si muoveva più, non eravamo i soli attardati.
Davanti a noi la sparatoria continuava tremenda, le grida tutt’intorno erano accompagnate da scene incredibili e sconvolgenti. Da più parti vedevo adulti cercare di scappare in tutti i sensi, ma le raffiche e gli spari li raggiungevano da ogni parte. Vicino vedevo raggruppare gli uomini e falciarli assieme. Dietro al mio sergente mi sentivo in disparte, la nostra parte era stata fatta, in più dovevamo badare al nostro prigioniero.
Tutto era tremendo, irreale pareva l'apocalisse. Molti dei miei compagni erano irriconoscibili. Quell'inferno li aveva tramutati in spietati esecutori di morte e l'orrore pareva eccitarli a uccidere con spietata freddezza.

Finalmente arrivati all'altra estremità del villaggio ci arrestammo un istante durante il quale consegnammo il prigioniero al Tenente che lo accolse disapprovando, mentre i capi squadra ci chiedevano se avevamo bisogno di altre munizioni siccome non era ancora finita. Infatti ripassammo nel villaggio per uccidere tutto il bestiame. Ne approfittai per uccidere un cammello usando un caricatore intero per far vedere che anch'io avevo sparato. Terminato il massacro ripassammo nel villaggio per la terza volta incendiando tutte le casupole.

Mai dimenticherò quel giorno, l'odore degli scoppi, del sangue, le grida, le raffiche. Donne che cercavano disperatamente di estrarre i cadaveri dalle fiamme, ragazze violentate, picchiate e forse anche uccise. Mi pareva incredibile che tanti miei compagni apparentemente equilibrati, trovassero godimento in quell'inferno di Dante e si vantassero per quanti ne avevano uccisi.
Compiuto il misfatto ci avviammo in colonna attraverso i monti vicini. Passando davanti al comando della mia compagnia ebbi una piccola sorpresa: Il vecchietto a cui non avevo sparato era lì in piedi con la radio ricetrasmittente militare sulle spalle. Era l'unico uomo del villaggio sopravvissuto e lo doveva a me, ero contento. Passandogli davanti gli feci un cenno di saluto, ma lui mi guardò intimorito, non mi aveva riconosciuto.

Ci accampammo per la notte su di un monte che in linea d'aria non superava il chilometro di distanza dal villaggio saccheggiato. Attorno ai fuochi i gruppetti si formarono come al solito tra i più amici ma sempre divisi, i latini dai nordici. Attorno al nostro fuoco eravamo in sei tra italiani e spagnoli. C’era chi si apprestava a cenare col solito scatolame chi invece tirava fuori dallo zaino qualche pollo, qualche condimento per far su una cena un migliore, mentre altri controllavano il bottino trovato di chincaglierie varie. Io quella sera non avevo fame, avevo lo stomaco in subbuglio.
Era quasi notte e i miei compagni si apprestavano a farsi un giaciglio per la notte con erbe e foglie secche dopo aver discusso degli eventi della giornata. Attorno ai posti scelti per dormire, ognuno aveva fatto come al solito un muretto di pietre per ripararsi dal vento ma soprattutto per proteggersi in caso di attacco notturno.
Non riuscii ad addormentarmi subito. Immagini terrificanti mi passavano per la mente mentre in lontananza si scorgeva ancora il fumo nerastro che si elevava dal villaggio in rovina. Le grida di dolore delle donne giungevano sino a noi nel silenzio del crepuscolo come una nenia lontana, lugubre e continua.
Quanti saranno stati i morti? Trecento? Quattrocento? Lo spagnolo dal fucile mitragliatore si vantava di averne ucciso una ventina solo lui. ( Si seppe solo in seguito che la strage era motivata per il fatto che il giorno precedente una compagnia di paracadutisti della Regolare francese erano entrati nel villaggio per effettuarvi un controllo di documenti degli abitanti. Tutto si era svolto regolarmente ma nel lasciare il villaggio i parà caddero in una imboscata perdendo venticinque uomini, per rappresaglia i francesi ci fecero distruggere tutto).

I francesi in Algeria agivano duramente rispondendo col terrore al terrore. Dopo aver perso l'Indocina, il Marocco e la Tunisia, non intendevano lasciare anche l'Algeria che consideravano non una colonia, ma una seconda metropoli in Africa, cercando di non lasciarsi sopraffare sin dall'inizio e mantenere la supremazia con tutti i mezzi.
Ma i coloni avevano tirato troppo la corda e si erano fatti odiare. Finché andava bene così la Francia li appoggiava, poi finì col riconoscere che i coloni avevano esagerato sebbene fosse troppo tardi. Gli attentati e le imboscate si intensificavano sempre più sia nei grandi centri come nelle periferie.
Le zone forestali e montuose erano propizie agli agguati e i ribelli rimanevano quasi sempre introvabili. Colpivano e sparivano per confondersi tra gli altri, mentre noi ci mandavano in tutti i punti più caldi per sopprimere o per prevenire gli scontri armati, con l'aiuto dei soldati della "Regolare francese" . Incendiavano con bombe al Napalm la boscaglie per impedire che i Fellagà vi si nascondessero dentro.
Le case isolate dei coloni erano i bersagli preferiti dai ribelli. Uccidevano incendiavano, torturavano, terrorizzano, rubavano e sparivano lasciandosi dietro fumo fuoco e morte.
Il nostro compito divenne così quello di condividere la loro sorte, proteggerli o morire con loro. Gente solitamente prepotente, egoista e abituata a trattare gli indigeni come schiavi. Non mancavano di far risentire anche su di noi un'autorità che gli era abituale.

Ci sparsero in gruppetti di otto per ogni cascina. Io mi trovavo con altri sette compagni presso un colono importante della zona. Lui, un francese sulla cinquantina era nato lì dove viveva con la moglie, due figlie e tre maschi. Con loro una quindicina di indigeni alloggiati in un capannone ad un centinaio di metri dalla casa. Noi ci eravamo installati in una vecchia rimessa attaccata alla casa stessa. Due volte al giorno venivano i nostri con un camion a portarci il rancio caldo.
Il nostro lavoro consisteva nel fare una sorveglianza continua giorno e notte. In tre mesi di permanenza alla cascina mai una volta ci fu offerto un frutto o una bevanda, anzi, un giorno mentre il figlio più vecchio pattugliava le sue terre col fucile in spalla scoprì uno dei miei compagni che mangiava della frutta. Gli disse severamente che bastavano i ribelli a depredarlo senza che ci si mettessimo anche noi. A quel punto il mio compagno se ne andò dicendogli:"Quanto odio gli arabi per non avervi ancora fatto fuori tutti".
Tale egoismo in fondo non ci meravigliava più di tanto, bastava vedere in che modo trattavano gli indigeni al loro servizio gli davano settantacinque franchi al giorno, appena sufficienti per acquistare un pacchetto di sigarette. Una volta al mese il "canùn",che comprendeva per ognuno dieci chili di farina, cinque di semola per il cùs-cùs, un litro di olio, un po’ di tè, caffè e zucchero doveva bastare per un mese; in cambio dovevano lavorare quattordici quindici ore al giorno, accompagnate da qualche randellata. E cosa non fa fare la miseria. A capo dei manovali eleggevamo tra loro il più dominante che per qualche regalia in più diventava nei confronti dei subalterni più feroce dei padroni stessi.

Intanto la situazione terroristica peggiorava sempre più. Nelle cascine fummo sostituiti dalla "Regolare francese", mentre per noi altri compiti ci attendevano.

Giugno "57. La decima compagnia si raggruppò a Ziama-Mansuorià in un accampamento protetto da larghi strati di reticolati. Eravamo accampati sotto tende circondate da alte pareti rocciose. Speravo dentro di me che vi fosse qualcuno dei nostri là sopra a sorvegliare, perché sarebbe stato sufficiente che qualcuno avesse gettato giù dei massi per fare di noi una frittata. Fortunatamente nei nostri letti non ci eravamo quasi mai.
Ci avevano radunati lì per essere sempre pronti in qualsiasi intervento richiesto e non avevamo più un instante di tregua. Le schiere ribelli diventavano sempre più audaci, oltre agli attentati al plastico nelle città, facevano attacchi ai coloni, ai convogli militari e civili. Ora attaccavano anche gli accampamenti militari e le caserme e noi correvamo in tutti i luoghi dove avvenivano gli attacchi a sorpresa. A volte dopo aver rullato sulle camionette per giorni o notti intere o dopo aver marciato per ore ed ore nella boscaglia si arrivava sul posto per trovare una o più case bruciate e nelle macerie ancora fumanti con cadaveri europei ma anche indigeni sospettati collaborazionisti coi francesi. Si partiva allora guidati dagli Harkì, sulle tracce dei Fellagà. Tracce che finivano per scomparire in qualche grosso centro abitato. Ecco perché si cambiò tattica e da allora ogni nostro intervento venne fatto con elicotteri.
Ogni città, paese o borgata vennero circondate da spesse barriere di reticolati e dopo il coprifuoco serale nessuno poteva ne uscire ne entrare senza un permesso speciale e nemmeno si poteva circolare per le vie.
Nei dintorni immediati ove avveniva un attacco venivano effettuati degli arresti tra gli indigeni che con le buone o le cattive dovevano ciò che sapevano o avevano visto.
Qualcuno non parlava per timore dei Fellagà, per patriottismo o perché effettivamente non sapeva niente, in tal caso scomparivano dietro le mura del "2° Bireaù", una specie di "Gestapo" francese dove raramente, dopo essere stati torturati ne uscivano vivi.
Per gli indigeni che volevano restare neutri nel conflitto la vita era disperata, essendo essi sospettati sia dagli uni che dagl'altri e sempre soggetti a perquisizioni, controlli e verifiche di ogni sorta. Se poi un attentato avveniva nei loro paraggi, per evitare le torture dovevano dire ciò che sapevano ai francesi, ma parlando si esponevano alle rappresaglie dei Fellagà che ritornavano di notte a vendicarsi. Erano considerati traditori dai francesi se aiutavano i ribelli, lo erano per i ribelli se aiutavano i francesi, lo erano per entrambi se non aiutavano nessuno.
Questo il motivo per cui gran parte dei contadini e di nomadi scelsero di riunirsi con le famiglie e gli animali in campi di concentramento circondati dai reticolati e sotto stretta sorveglianza attorno alle caserme, ai fortini, o nelle periferie dei paesi già rinchiusi dentro le barricate dei reticolati e sorvegliati dai militari che approvavano tale iniziativa e la incoraggiavano promettendo loro aiuti alimentari e assistenza medica.
In tal modo ogni caserma o forte militare era affiancato da immensi recinti di indigeni che venivano volontariamente ad asseragliarvisi sotto la protezione dei militari e lì rimasero fino all'indipendenza, dopo di che, dovettero fare i conti con i Fellagà che ritenendoli traditori ne mutilarono e ne uccisero parecchi. Certuni si rifugiavano dietro ai reticolati dopo aver svelato un nome, indicato una casa o un villaggio. Si partiva allora precipitosamente verso l'obbiettivo indicato, per questo gli elicotteri divennero per noi un mezzo di trasporto abituale. Ci servivano per effettuare rastrellamenti a sorpresa, perquisizioni lampo o piombare addosso ad una banda di ribelli in fuga.
Servivano soprattutto per farci arrivare di sorpresa nei villaggi da perquisire dopo che già si trovava circondato. Se nel villaggio veniva trovato qualche segno di bellicosità cominciavano le rappresaglie: Ammassamento degli uomini in un punto del villaggio e qualcuno doveva parlare altrimenti erano torturati sul luogo stesso, uno ad uno finche non si sapeva la verità. Le loro case venivano distrutte, le donne violentate, il bestiame trucidato o sequestrato, i magazzini svaligiati. Quando non si trovava niente, lasciavamo il villaggio solo un po’ in disordine: le anfore più grosse venivano rotte per controllarne il contenuto, la legna, gli sterpi e il fieno veniva messo sottosopra per cercare botole o eventuali svuoti nelle mura.
A missione compiuta, se non ve ne erano altre urgenti si faceva ritorno a piedi. Ci accampavamo verso sera in piena natura riuniti per gruppi nelle alture dominanti, e dopo aver scavato in fretta la piccola trincea individuale, ci sedevamo attorno ai fuochi che i più affamati avevano già acceso. Aprivamo gli zaini e ognuno tirava fuori il bottino per dividerlo con il gruppo. Galline, tè, caffè, zucchero, pomodori, uova ecc., oltre ai soliti anelli, braccialetti, fular e profumi a buon mercato. Così raccolti attorno ai fuochi si mangiava, si discuteva, si fumava, prima di prepararci a passare la notte a terra tra le rocce per i più prudenti o su uno strato di erbe per i più delicati. Gli scorpioni che erano numerosi non ci facevano più paura, solo un attacco improvviso di notte era da temere, ma le sentinelle vegliavano in permanenza.

Ottobre " 57.

Man mano i francesi perfezionavano i loro metodi di intervento, i Fellagà invece perfezionavano quelli di sabotaggio.
Le improvvise irruzioni nei villaggi con gli elicotteri non avevano più l'effetto iniziale, o vi trovavamo solo donne e bambini, o erano recentemente e precipitosamente abbandonati. I segni erano eloquenti: focolai ancora accesi nelle case, minestra lasciata a metà nelle ciotole, ecc.. Qualcuno probabilmente li avvertiva e doveva essere gente ben piazzata in alto perché nemmeno agli ufficiali e sott'ufficiali non venivano comunicati gli ordini che all'ultimo istante.

La vita di ogni giorno era una continua scorreria, in qualsiasi momento poteva succedere un imprevisto, un rischio maggiore o diverso da quello vissuto. Una vita dura ma che aveva un certo fascino su di me, malgrado gli inconvenienti.
Quando si rientrava al campo, a volte dopo sei o sette giorni di continuo vagabondare stanchi, sporchi e con la barba lunga, i miei compagni erano contenti di ritrovare finalmente un letto e farsi una doccia. Io lo ero meno felice di loro perché appena rientrati ricominciava subito la disciplina che odiavo e che fuori non c’era. Appena arrivati si ricominciava subito con le riviste di armamento, di camerata, le corvè per il lavaggio dei panni personali e i soliti lavori di fortificazione. I tedeschi appena si rientrava, soprattutto se si era ai primi del mese e avevano ricevuto la paga, cominciavano ad ubriacarsi e a farne di ogni colore. Si bisticciavano e vomitavano dove gli capitava. Preferivo essere fuori in piena natura anche se lo scatolame cominciava a darmi la nausea.

Il sergente Anitei fin dal suo recente arrivo tra noi, aveva formato una squadra di volontari per andare quando si era al campo, di notte, a tendere imboscate nei pressi di cascine abbandonate e sospette di raggruppamenti di Fellagà. Ero spesso tra i volontari, sia per non montare la guardia al campo, sia perché il giorno seguente si era liberi di restare a letto senza partecipare ai lavori di fortificazione nel campo o fare le solite riviste e gli addestramenti.
Quando restavamo per alcuni giorni al campo uscivo dunque volontario di notte col sergente e altri cinque compagni.
Partivamo in colonna silenziosi e armati fino ai denti, andavamo ad appostarci per ore in luoghi diversi a pochi chilometri dall'accampamento. Travestiti da arabi, con la testa coperta dal cappuccio dalla Djellabà, con la pistola lanciarazzi la bussola e i razzi a mano, oltre alle armi in dotazione. Prima di partire dovevamo lasciare al campo ogni oggetto che potesse servire a identificarci, compreso il grado e l'unità di appartenenza. Si partiva alle ventidue e si restava in agguato fino alle tre o alle quattro del mattino.
Una notte ci appostammo lungo una pista indicataci da un prigioniero quale passaggio di alcuni agenti di contatto Fellagà. La pista era situata in mezzo ad una fitta boscaglia, ma il punto in cui ci appostammo era uno spiazzo ricoperto solo da erbacce.
Verso le due del mattino sentimmo un chiaro calpestio tra le foglie secche in avvicinamento. Ero vicino al sergente che mi disse: " Stanno arrivando, li senti? ", feci cenno di sì e lui continuò "Avverti gli altri di tenersi pronti al mio ordine".
Avvisai gli altri che a due a due erano appostati poco lontano. Era una notte senza luna con visibilità quasi nulla. Il calpestio si avvicinava finché ad un tratto sbucarono dal bosco diverse sagome nere, ma non sulla pista. Camminavano di lato passando ad una trentina di metri da noi. In un sussurro il sergente chiese: " Pronti?, fuoco! ".
Le armi automatiche vomitarono assieme per non arrestarsi che quando i caricatori furono scarichi, e nei pochi istanti di calma necessari per innestare nuovi caricatori si sentì correre tra il fogliame in più direzioni. Sul posto erano rimaste alcune delle sagome che sentivo smuovere e ansare, una di esse addirittura veniva verso di noi, ne seguirono altre raffiche poi un gran silenzio. Il sergente fece partire un razzo rosso per segnalare al comando che avevamo preso contatto coi Fellagà e restammo appostati. Pochi istanti dopo accorsero i rinforzi che si giunsero a noi dopo i segnali di riconoscimento.
Era la compagnia al gran completo che, sentita la sparatoria e visto il razzo era accorsa in tutta fretta. Alcuni legionari erano ancora mal fagottati ma ben armati.
Si sparpagliarono a terra circondando la zona sospetta e così restammo sino all'alba. Nel frattempo il capitano si era avvicinato al sergente chiedendogli sottovoce quanti erano e da che parte erano fuggiti.
All'alba rastrellammo la zona. A terra vi erano tre cinghiali e del sangue sparso.
Il capitano stava per arrabbiarsi, ma al pensiero di qualche pasto migliorato per tutti si calmò prendendo il tutto con tono scherzoso.
Per qualche tempo non ci furono più imboscate perché uscimmo per vari giorni marciando tra i monti a rastrellare e perquisire, ma al ritorno al campo le imboscate ripresero ed io ero sempre con loro.
Quella sera eravamo pronti a partire verso le ventuno, io, Molitor il tedesco, Molinas lo spagnolo, Urbani l’italiano, e altri due tedeschi più il sergente Anitei.